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Didi Chuxing, l’Uber cinese

Nordest italiano, anni Ottanta: l’operaio-massa viene incentivato a lasciare la fabbrica con la promessa di un nuovo status da «piccolo imprenditore». Nasce così il lavoratore autonomo di seconda generazione, il popolo delle partite Iva. Dal lavoro salariato si passa alla committenza, la consulenza, l’intermittenza. Tipico è il caso dell’autista che fa le consegne aziendali: gli si offre una buonuscita per comprare un camion, lo si trasforma nel fornitore di un servizio, si scaricano sulle sue spalle gli alti e bassi del mercato. Cambia perfino il consumo di droghe: dall’eroina debitamente immessa sul mercato per spezzare le reni al proletariato di fabbrica e al proletariato giovanile, si passa alle anfetamine, così adatte a reggere i ritmi di lavoro da 60 ore settimanali a cui, nella nuova dimensione ipercompetitiva, si sottopone il nuovo piccolo imprenditore plebeo. Dall’auto-organizzazione dei movimenti, si passa all’auto-sfruttamento dei singoli. Dal Partito comunista alla Lega Nord.

Cina, 2016: «Didi Chuxing ha creato più di un milione di posti di lavoro per gli esuberi dell’industria pesante», annuncia trionfalmente la stessa impresa già ribattezzata «Uber cinese». Didi Chuxing fornisce veicoli privati e taxi a chiamata grazie a un’applicazione per smartphone. Non hai voglia di aspettare in qualche incrocio di una metropoli cinese sventolando la mano a ogni taxi che passa? Apri «Didi», scopri chi c’è nei paraggi e contratta in tempo reale il costo del viaggio. È mediamente più rapido, efficiente e spesso anche più economico del taxi tradizionale. Nasce da due servizi preesistenti e concorrenti, supportati dai giganti dell’IT cinese – Didi Dache (Tencent) e Kuaidi Dache (Alibaba) – che si sono fusi di fronte allo sbarco di Uber – quello vero – in Cina. Di recente, anche Apple ha investito un miliardo di dollari in Didi Chuxing. Ora, si diceva, la stessa società afferma che 3,89 milioni dei suoi autisti full-time o part-time vengono da 17 delle regioni più industrializzate della Cina, sparse dalla rust belt del nord-est alla Cina centrale: Heilongjiang, Shanxi e Sichuan tra le altre. 530mila di questi chaffeur o autisti privati sono ex operai di industrie pesanti in corso di pesante ristrutturazione: carbone, acciaio, cemento. Secondo Didi, si tratterebbe del 60,2 per cento dei lavoratori dell’industria inseriti nel programma di ricollocazione del governo per il 2016; del 29,4 se si considera l’obiettivo quinquennale.

Dunque, ricapitolando, l’ex operaio massa cinese reso esubero utilizza la propria vettura privata (o quella fornita da un’agenzia) per offrire un servizio apprezzato dalla clientela, che produce profitti per Didi Chuxing e fa un piacere al governo. Ricorda terribilmente il nostro camionista nordestino; è la nascita del lavoratore autonomo di seconda generazione secondo caratteristiche cinesi (la prima generazione era quella dei piccoli-medi imprenditori manifatturieri di cui abbiamo già raccontato). Ma qui siamo nell’epoca dell’IT e in quel processo di transizione da società industriale a società dei servizi (e dei consumi) che è il sogno dei leader di Pechino.

Gli sbandierati successi di «Didi» appaiono anche come il trionfo della geolocalizzazione, forse il trend più interessante nell’ambito delle tecnologie informatiche. Se in Occidente si parla dei Pokemon Go come di «avamposto di Google per la guerra contro Facebook», da tempo le tre sorelle dell’IT cinese – Baidu, Alibaba, Tencent – competono per creare servizi che si basano sulla localizzazione geografica, nonché per fare il prossimo salto epistemologico. Due anni fa, Baidu strappò a Google Andrew Ng, guru del Deep Learning, quella tecnologia che ci permetterò di parlare ai nostri telefonini e sguinzagliarli alla ricerca di informazioni che loro stessi rielaborano. Prime applicazioni? I servizi connessi al territorio, naturalmente: « Dire al mio dispositivo elettronico “trovami un buon ristorante nel centro di Pechino”, è sicuramente più comodo che mettersi a digitare sulla tastiera», ci disse ai tempi Ng.

Ma torniamo a Didi Chuxing. L’amministratore delegato Cheng Wei ha dichiarato che le corse giornaliere che si basano sull’applicazione sono 15 milioni, e aggiunto che «mentre la Cina vive una profonda ristrutturazione economica, Didi è in una posizione unica per aiutare gli autisti a trovare opportunità di lavoro flessibili e un miglior tenore di vita, grazie al potere della tecnologia con la quale ci adoperiamo a creare città più sostenibili». A febbraio Pechino ha annunciato 1,8 milioni di licenziamenti nelle miniere e nelle acciaierie, cui si appresta a rimediare con un fondo da 100 miliardi di yuan per facilitare la riassunzione dei licenziati in comparti più strategici. Il premier Li Keqiang ha lanciato un vero e proprio appello affinché tutto il Paese si adoperi nel processo di ricollocamento dei lavoratori. Nell’anno in corso, il governo si propone di ridurre la produzione d’acciaio di 45 milioni di tonnellate e di tagliare la capacità produttiva nelle miniere carbonifere di 280 milioni di tonnellate. Come fa notare Kitty Fok, amministratore delegato della società di ricerca IDC China, «le piattaforme Internet come Didi sono in grado di offrire opportunità di lavoro per gli operai, aiutando al contempo anche a realizzare l’iniziativa governativa Internet Plus».

Un segnale d’allarme è lanciato però dagli economisti del grande gruppo bancario HSBC, secondo cui il passaggio troppo rapido da società industriale a società dei servizi abbatterà la produttività dei lavoratori cinesi, già non eccelsa. Il motivo? I nuovi lavori nel terziario – che ormai rappresenta la voce più importante del Pil nazionale – sono soprattutto servizi a basso valore aggiunto, che non richiedono grande specializzazione: chi è stato in qualsiasi ristorante di una metropoli cinese avrà per esempio ben in mente la ridondante presenza di camerieri inutilizzati e piuttosto inefficienti. Ecco quindi che Didi e servizi simili possono sembrare il classico cacio sui maccheroni (soia sui ravioli, fate voi): coniugano la ricollocazione della forza lavoro nei servizi con la creazione di innovazione. Ma, come nel Triveneto e ovunque, trasferisce estrema flessibilità sul groppone della forza lavoro. È il neoliberismo, bellezza.

Tratto da China Files

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    Gabriele Battaglia
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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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