Approfondimenti

De André, Mark Harris: “Siamo diventati amici perché non lo adulavo come tutti”

Mark Harris

In occasione del 21esimo anniversario della scomparsa di Fabrizio De André, abbiamo ospitato a Jack il tastierista, arrangiatore e compositore Mark Harris, storico collaboratore di De André dalla metà degli anni ’70.

[dal minuto 18’38”]

L’intervista di Matteo Villaci e Margherita Devalle.

Com’era lavorare con Fabrizio De André?

Io ci lavoravo benissimo. Quando l’ho conosciuto non era un mito per me, io arrivavo dagli Stati Uniti e lui per me era un bravo cantante, non era un mito sacro.
Eravamo i migliori amici anche perché lui non voleva che la gente lo adulasse. Voleva avere dei rapporti normali, anche se con gli anni si era un po’ disabituato.

Quando hai iniziato a suonare con lui sapevi già che era un mito o l’hai scoperto lavorandoci insieme?

La prima volta che l’ho conosciuto mi avevano convocato dalla Dischi Ricordi, con cui avevo già fatto molti lavori. C’era un 45 giri di Fabrizio, “Una storia sbagliata“, a cui mancava il lato B. Serviva un riempitivo per questo 45 giri e Mara Maionchi, che lavorava alla Ricordi e che conoscevo molto bene, pensò di chiamarmi. Sono entrato in sala in ritardo e mi sono messo a trascrivere il brano mentre ce lo facevano ascoltare. Per me si trattava di Fabrizio De André, ma alla fine quello era Massimo Bubola. Nel frattempo un tipo burbero si aggirava per lo studio e io avevo dato per scontato che si trattasse dell’impresario.
Dopo aver completato la base tutti gli altri musicisti se ne stavano andando, sono salito in regia e ho visto che quello che per me era l’impresario si è messo a cantare. E lì ho capito, quello era Fabrizio De André!
Sono rimasto esterrefatto dal modo in cui cantava. Ha registrato due versioni di quel brano e subito dopo gli sono andato incontro per fargli i complimenti. “Ma lo sai che canti proprio bene? Hai una voce bellissima“. Lui mi guardò come se lo stessi prendendo in giro, ma in quell’espressione ho visto che ha messo insieme i punti e realizzato che io ero sincero, non lo conoscevo e che ero davvero impressionato. Ho visto i suoi occhi da bambino quando mi ha risposto “Belin, non me lo dicevano da anni!

Cos’è che oggi, a 21 anni dalla scomparsa di Fabrizio De André, manca più di lui?

Sicuramente manca qualcosa di simile come qualità. Lui faceva i dischi una volta ogni 4 o 5 anni non per pigrizia, ma perché curava in maniera maniacale tutti i dettagli. Possono piacere o non piacere, ma sono innegabilmente dischi di una portata epocale. Dischi interi concepiti in quella maniera lì non mi vengono in mente dall’Italia in questi anni.

È vero che hai lavorato al disco incompiuto di De André e che hai in garage quello che ne è venuto fuori?

Lui aveva questa visione per una sorta di suite di quattro movimenti con pochissimo cantato e pochissimo testo maschile. Mi voleva per fare qualcosa di sinfonico e jazz. Io ho realizzato un brano e mezzo di questo lavoro, ne avevamo parlato solo per telefono perché lui ormai si vergognava di farsi vedere in giro dopo le chemioterapia. Comunicavamo soltanto via telefono e così mi ha accennato alcune frasi e alcune strofe. Aveva apprezzato le melodie che avevo scritto, ma di concerto non c’è davvero nulla. Io ho fatto le basi e ho le melodie, ma non c’è altro.

Ci racconti la genesi dell’Ave Maria in sardo con cui chiuderemo la puntata?

La prima volta che ho sentito la musica sarda era durante le registrazioni di Napoli Centrale, nel 1974-1975. Ero in un ristorante di Roma e il televisore stava trasmettendo un coro di tenori sardi. James Senese mi spiegò di cosa si trattava e il giorno dopo sono andato alla Dischi Ricordi di Piazza Venezia a cercare dei dischi sardi. Trovo una trentina di dischi in una scatola e li prendo tutti. Tra quei dischi c’era anche roba di qualità e ho iniziato a farmi una cultura. Quando con Fabrizio De André abbiamo fatto “Tre Rose” di Massimo Bubola, Fabrizio mi chiese di arrangiare il suo prossimo disco, chiedendomi anche se conoscevo la musica sarda.
Quando mi chiese se conoscevo l’Ave Maria sarda, gli risposi “Quale versione?”. Lì ho capito che non sapeva molto della musica sarda!
Una volta scelta la versione, mi chiese di farne una versione alla Pink Floyd. Non ero un fanatico dei Pink Floyd, ma riuscì a concepire una versione che si avvicinasse a quella richiesta. Inizialmente voleva farla cantare ad un coro di suoi amici sardi, ma dopo diverse prove Fabrizio si è convinto che avevo ragione io, non poteva farla cantare ad altri. Quando gli ho fatto sentire la base che avevo realizzato decise di farla cantare a me, ma abbiamo fatto insieme i coretti.

Foto di Fulvio Petri dalla pagina ufficiale di Mark Harris su Facebook

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    All’interno del centro sociale Leoncavallo si trova una delle più grandi e significative stratificazioni di street art in Italia, che conserva le tracce di eventi storici unici e irripetibili. Si chiama DaunTaun lo spazio situato nei seminterrati del Leoncavallo, in via Watteau. I graffiti, realizzati da diversi artisti urbani, costituiscono una delle più complesse e longeve stratificazioni di street art nel panorama italiano. Molti di questi risalgono al 2003, quando, in occasione del nono e ultimo Happening Internazionale di Arte Underground (HIU) — evento interamente gestito e autoprodotto — si tenne al Leoncavallo il primo evento pubblico di street art in Italia. Con lo sgombero del centro sociale, il futuro di queste vere e proprie opere d'arte resta un’incognita. Tiziana Ricci, a Cult, ne ha parlato con Marco Teatro, artista, pittore, scenografo e pioniere della street art in Italia.

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