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Cosa prevede l’accordo firmato al vertice UE sul Recovery Fund?

Conte Recovery Fund

Andrea Di Stefano, direttore della rivista Valori, commenta ai microfoni di Radio Popolare l’accordo firmato nella notte al vertice UE dopo giorni di discussioni e tensioni. Cosa prevede l’accordo per il Recovery Fund e cosa dovrà fare l’Italia nei prossimi mesi e nei prossimi anni?

L’intervista di Alessandro Braga a Prisma.

A tuo avviso è davvero una giornata storica?

Senza alcun dubbio è oggettivamente un passaggio storico per l’Unione Europea perché per la prima volta viene messo a punto un piano di interventi comunitario per reagire a uno shock esterno, in questo caso allo shock pandemico, ipotizzando di reperire risorse sia dal bilancio comunitario sia dall’emissione di Eurobond. Dal punto di vista complessivo senza dubbio è una svolta rispetto alla storia degli ultimi 30-40 anni dell’Unione Europea.

La novità è che del debito di un Paese si fa carico tutta la comunità europea?

Non è proprio così, sarebbe un’interpretazione molto forzata. Per la prima volta assistiamo ad un’Unione Europea che, dopo tanti appelli, decide di fare degli investimenti finanziati a livello comunitario, decisi di comune accordo tra i singoli Paesi e la Commissione. Questi investimenti, invece di essere finanziati con i bilanci nazionali, vengono finanziati con risorse comunitarie. Non è una mutualizzazione del debito, bisogna stare attenti a non far passare questa idea, ma è la mutualizzazione della spesa per investimenti. Dopo il successo – perché è indubbio che per il governo Conte si sia trattato di un successo – inizia la parte più difficile, quella di riuscire effettivamente a spendere per investimenti queste risorse.

Per l’Italia c’è una bella fetta di questi 750 miliardi. Si parla di oltre 209 miliardi: 82 circa a fondo perduto e 127 in prestiti a lungo termine. Ora cosa deve fare l’Italia? Quali sono i paletti che sono stati messi per utilizzare questi fondi?

Possiamo riassumere la sfida vera in tre punti. 1. Fare un paio credibile e in tempi rapidi – si dice entro fine settembre – presentare all’Unione Europea un piano di investimenti che tenga conto anche del paletto ambientale. Nell’accordo si dice che almeno il 30% delle somme deve essere destinato ai cosiddetti climate action, cioè al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione dell’Unione Europea. 2. Dopo aver presentato il piano e raggiunto l’accordo con la Commissione UE, bisogna fare in modo che questo piano si possa attuare. Noi veniamo da una performance molto bassa di utilizzo dei fondi comunitari. Queste sono risorse diverse, ma sarà comunque molto delicato perché sulla deviazione rispetto al piano o sull’incapacità di attuare il piano potrebbe agire il famigerato freno d’emergenza che è stato imposto dal premier olandese Rutte a nome dei Paesi frugale. Si tratta sostanzialmente di una sospensione nell’erogazione soprattutto dei sussidi. 3. Bisogna evitare di avere un effetto moltiplicatore del Pil negativo. Noi sappiamo che si fanno bene gli investimenti, per ogni euro speso o investito si possono produrre 2 o 3 euro di Pil. Se, invece, si vanno a coprire buchi o a utilizzare le risorse per risolvere dei problemi di natura di welfare sociale, è evidente che questo effetto volano può non esserci o addirittura essere azzerato. Come destinare le risorse e come attuare il piano al di là dell’accordo con Bruxelles credo che sia uno dei punti cruciali che ci aspettano nei prossimi mesi.

È stata l’incapacità dell’Italia di utilizzare i soldi europei ad aver spinto l’Olanda, e in particolare i cosiddetti Paesi frugali, ad avere dei dubbi?

Io direi che prima di tutto ci sono le motivazioni interne, cioè le elezioni olandesi e la necessità di Rutte di sconfiggere i sovranisti interni o gli anti-europeisti. Nella conduzione delle trattative di Rutte credo che abbiano contato più le problematiche interne all’Olanda che quelle di politica europea. Poi, certo, gli olandesi non sono per antonomasia degli europeisti. Sono più dei britannici importati nella logica europea e quindi la loro posizione è sicuramente stata quella della diffidenza nei confronti dell’Italia. L’Italia, dal suo, non ha certo una patente di efficacia e efficienza nello spendere i soldi comunitari, ma è anche un Paese che non ha una continuità nella linea politica. Io credo che una delle preoccupazioni principali sia legata al fatto che oggi c’è Conte e domani non si sa. E quel domani potrebbe esserci qualcuno che poi non rispetta gli accordi che sono stati assunti.

Concretamente questi soldi non si potranno usare prima del 2021?

No, sembra che si possa avere un’anticipazione dei fondi per sostenere le spese per investimenti che sono stati già effettuati. Questo è uno dei punti che va chiarito perché, ovviamente, il testo è solo parzialmente esaustivo. C’è questo famoso ampliamento delle risorse a prestito, quei 33 miliardi che sarebbero lo stesso ammontare del MES. L’Italia potrebbe quindi ricorrere a queste risorse che non hanno alcun rischio di condizionalità o che non suscitano polemiche politiche. Una parte di questi fondi si potrebbero avere più rapidamente anche per compensare alcune spese per investimenti già fatti. A che cosa si può pensare? Soprattutto alle spese per la sanità e la scuola che Conte ha richiamato, anche se non è chiarissimo se questi capitoli possano rientrare direttamente all’interno del Recovery Fund o delle nuove sigle che sono state attribuite. Alcune risorse possono arrivare anche abbastanza rapidamente.

Oggi Conte ha detto che dopo l’accordo spera che venga meno tutta quella ossessione sul MES. Perché dice così?

In parte ha ragione, perchè del MES è stata fatta una bandiera, come accaduto altre volte nel dibattito politico, di immagine e slogan e poco di sostanza, come se accedere ai fondi del MES per la sanità volesse dire capitolare alla Troika. Così non è, almeno dal punto di vista degli atti formali e da quello che è scritto nei documenti ufficiali e nei testi approvati. Conte cerca di sgombrare il campo e di dire “adesso che è stato fatto l’accordo, anche sul MES dobbiamo ragionare in maniera più laica”. Non so se riuscirà a farlo e non so se il livello non alto del dibattito politico italiano gli permetterà a questo punto di affrontare più seriamente l’eventuale ricorso ai fondi del MES per le spese relative al sistema sanitario, che sono più che mai necessarie nel nostro Paese.

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    Una mostra fotografica ripercorre i 50 anni di Radio Popolare. Dal 14 dicembre a Milano

    Domenica 14 dicembre alle ore 10, presso la Sala Cisterne della Fabbrica del Vapore, a Milano, inaugura la mostra "50 e 50. La mostra. Radio Popolare 1975 - 2025", una delle prime iniziative organizzate per celebrare il 50esimo anniversario dalla fondazione di Radio Popolare. La mostra racconta i cinque decenni "di onda" attraverso venti storie realizzate dai fotografi che in questi anni sono stati vicini alla radio. Inoltre, la mostra ospiterà un’interpretazione creativa realizzata da Studio Azzurro dei video che ricostruiscono la storia di Radio Popolare. La mostra sarà allestita fino al 25 gennaio. Tiziana Ricci ce la racconta insieme a Giovanna Calvenzi, che ne è la curatrice.

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