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Perché i bambini non siano adulti violenti

Il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella è chiaro e ricalca quanto dicono gli esperti da decenni: la violenza di genere va estirpata “attraverso l’educazione dei giovani ai rapporti affettivi”. Bisogna insegnare che “amore e violenza sono tra loro incompatibili”.

Per combattere la violenza alla radice bisogna crescere degli uomini non violenti, ripetono psicologi e operatori dei centri di aiuto. Perché la violenza è un problema degli uomini, non delle donne, che ne subiscono le conseguenze.

“Corsi di questo tipo si tengono da decenni nelle scuole italiane”, racconta ai microfoni di Radio Popolare il pedagogista dell’Università di Palermo Giuseppe Burgio.

E allora perché la violenza è ancora così diffusa?

“Perché si fa troppo poco e male. Tutte le azioni fatte nelle scuole sono sostanzialmente di educazione alle differenze. Si dice ai ragazzi che è importante accettare le differenze. Il problema è che la violenza non nasce dal fastidio per le differenze, ma da un bisogno che hanno i bambini e gli adolescenti maschi di costruirsi un’identità maschile in una società maschilista e sessista”.

Cosa significa?

“Per le bambine è più facile: la scuola contemporanea è accogliente. Le femmine ottengono ottimi risultati e il loro merito viene riconosciuto. Poi vengono penalizzate nel mondo del lavoro, ma a scuola sono protagoniste.

Per i bambini invece è più complicato. Non hanno punti di riferimento. L’identità maschile viene continuamente messa in dubbio. Mentre crescono gli si dice spesso: “Comportati da uomo”. Gli adolescenti non sanno a quale modello riferirsi per costruire la loro identità di maschi adulti, e adottano il modello più pacchiano offerto dalla nostra società: l’aggressività. Il modello è sempre quello di un uomo giovane e muscoloso che usa la violenza per risolvere i conflitti. Tutta la cinematografia prevede degli uomini che sono eroi. In positivo – come Superman – che usa la forza per aiutare i più deboli, e in negativo. Comunque gli eroi usano la violenza”.

Cosa bisogna insegnare ai bambini per crescere degli uomini non violenti?

Secondo me non bisogna ragionare in termini di educazione alle differenze, ma in termini di educazione alle maschilità, al plurale. Bisogna educare questi piccoli eroi in crisi, dicendo agli adolescenti impauriti che tutte le forme di maschilità hanno la stessa dignità: che anche un uomo anziano è un uomo, che anche un uomo su una sedia a rotelle è un uomo, che anche un omosessuale è un uomo. Che possono permettersi di piangere e non devono aderire a un ideale di virilità astratto, lontano e irraggiungibile.

Gli adolescenti che prendono il modello dell’eroe e cercano di raggiungerlo, quando crescono cercano nelle donne una conferma esterna a questa fragilità. Chiedono la complicità delle donne, e quando la complicità viene meno la risposta è la violenza.

Qual è il meccanismo che fa scattare la violenza?

La violenza di genere è un problema di gerarchia sociale. Prevede che io in quanto maschio eterosessuale debba avere un privilegio nella società. E allora attacco le donne che si ribellano a questa strutturazione o gli omosessuali che per esempio sono troppo visibili e mettono in discussione quel modello di maschilità.

Come si spiega l’elevato numero di violenze anche tra i giovani, considerando che le donne vengono considerate libere ed emancipate?

Il patriarcato, che ora è in crisi, garantiva un ruolo chiaro di potere agli uomini e un ruolo sottomesso alle donne. Le donne in cambio avevano la garanzia che la violenza negli spazi pubblici era inesistente, tranne in caso di guerra.

Con la crisi del patriarcato la violenza contro le donne è ovunque: dentro e fuori casa. Basta vedere cosa accade con gli stupri. Gli stupratori intervistati nelle ricerche dicono tutti la stessa cosa: che hanno violentato una donna perché volevano “rimetterla al proprio posto”, oppure “insegnarle a subire”. Uno stupratore non agisce perché in preda ad un raptus erotico, così come un alcolista non beve perché ha sete. Sono meccanismi più complessi, che partono dalla costruzione dell’identità.

Per questo bisogna partire dalle scuole, come sollecita Mattarella.

“Il problema è che l’educazione alle maschilità nella nostra società non la fa nessuno” – aggiunge Giuseppe Burgio.

La parole di Mattarella si scontrano con quanto affermano i detrattori dei corsi di educazione affettiva e sessuale. Corsi dannosi per la corretta crescita dei bambini, che insinuano nei più piccoli la pericolosa ideologia del gender – affermano.

Eppure educazione affettiva e sessuale sono considerati gli strumenti principali di contrasto alla violenza secondo quanto prevede la convenzione di Istanbul per l’eliminazione della violenza di genere, ratificata dall’Italia nel 2013.

A suo giudizio cosa spaventa chi si scaglia contro i corsi nelle scuole?

Ci sono due ipotesi che mi sono fatto analizzando la comunicazione dei gruppi “contro il gender”. Queste persone vivono l’educazione al rispetto tra uomini e donne come una minaccia allo statuto tradizionale della maschilità. Quello che prevede che l’uomo sia per natura aggressivo. E deve rimanere tale.

La mia ipotesi è che l’obiettivo polemico non siano le unioni civili, né il movimento degli omosessuali, ma il protagonismo delle donne. Per costoro il punto è rimettere le donne al proprio posto e far passare l’idea che gli uomini debbano avere “naturalmente” un ruolo superiore e utilizzare la violenza come attributo “naturale” della maschilità. Si vuole affermare la presunta “naturale” asimmetria tra i ruoli maschile e femminile: uomini sopra, donne sotto. La posta in gioco è la libertà delle donne.

E poi secondo me c’è un altro obiettivo polemico, che è la scuola statale. L’Italia è l’unico paese europeo che ha il 96% di studenti delle scuole statali e solo il 4% nelle scuole private, che sono in gran parte scuole cattoliche. Ritengo che questo terrorismo psicologico “salvate i vostri bambini dal gender” sia una riuscita operazione di marketing che cerca di spostare gli studenti dalla scuola statale alle scuole private cattoliche.

  • Autore articolo
    Chiara Ronzani
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    Kei Pritsker, regista con Michael T Workman del documentario “The Encampments”, racconta ai microfoni di Radio Popolare i retroscena della protesta studentesca pro Palestina alla Columbia University. “Gli studenti della Columbia protestano da anni per la Palestina e per ottenere che l’università dismetta gli investimenti in Israele – spiega Pritsker. L’università ha un ingente fondo di dotazione che investe in ogni sorta di attività, molte delle quali riguardano aziende produttrici di armi, aziende manifatturiere che realizzano armamenti, motori per elicotteri, bulldozer e ogni tipo di attrezzatura utilizzata in queste operazioni”. “The Encampments” fa parlare i ragazzi e le ragazze di questo movimento studentesco che dall’aprile del 2024 ha montato le tende nel giardino del Campus per chiedere trasparenza, il ritiro del denaro dagli investimenti israeliani e l’amnistia per gli studenti puniti per le proteste. “Chiunque creda ancora a questa narrativa sull’antisemitismo nel movimento per la Palestina dovrebbe semplicemente guardare il film – assicura Kei Pritsker”. Al momento “The Encampments” ha una distribuzione indipendente che lo diffonde nei cinema più coraggiosi. L'intervista di Barbara Sorrentini per la trasmissione Chassis.

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