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COP 27, un’alleanza per salvare le foreste pluviali

foreste COP27 ANSA

Immaginiamo di ricoprire tutta l’Unione Europea di alberi e foreste: sarebbe una grande distesa verde, ci sarebbe meno anidride carbonica e più biodiversità. Poi però, immaginiamo di bruciare tutta questa vegetazione. Gli alberi cadono, si fa spazio un terreno secco. Dal 1990 a oggi, la superficie di foresta andata persa sul nostro pianeta è pari proprio al territorio europeo.

Le riserve verdi più importanti oggi si trovano in Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo. Disboscamento e incendi accomunano tutte, ma per cause differenti. In Indonesia i roghi servono per fare spazio alle colture di palma, file ordinate di alberi tutti uguali, da cui si produce l’olio di palma. Usato per produrre dolci, per friggere e per produrre prodotti di cosmetica, viene usato all’estero in grandi quantità: l’Indonesia ne è il maggiore esportatore al mondo. L’anno peggiore per le foreste indonesiane è stato il 2015, con 2 milioni e mezzo di ettari di foresta distrutti.

In Amazzonia invece tra i responsabili principali del disboscamento c’è l’allevamento intensivo: si abbattono alberi per coltivare la soia – mangime per gli animali – e anche per creare spazio di pascolo. Nella Repubblica Democratica del Congo, invece, il disboscamento è causato soprattutto dal commercio di legname e dalla necessità della popolazione locale di avere carbone da usare come combustibile. Anche le riserve abbondanti di gas e petrolio mettono in pericolo le aree verdi del Paese.

Sono tutte problematiche su cui la Cop 27 si deve soffermare. Senza foreste la possibilità di contenere l’innalzamento della temperatura entro il grado e mezzo è ancora più lontano. Per questo i tre Paesi maggiormente responsabili delle aree verdi – Brasile, Indonesia e Repubblica Democratica del Congo – stanno creando un’alleanza. Obiettivi: ottenere fondi internazionali per la protezione delle foreste e creare un coordinamento per bloccare la deforestazione. Se l’accordo verrà portato avanti e avrà risultati tangibili, potrà essere un passo storico.

di Chiara Vitali

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    Si chiama “Board of Peace” e Donald Trump, il presidente degli Stati Uniti, l’ha pensato come il grande consiglio che guiderà – sulla carta - la ricostruzione di Gaza. Il disegno immaginato da Trump non prevede l'intervento degli organismi internazionali che hanno retto la sovranità del diritto per decenni. Nel futuro di Gaza – almeno per ora – non sono previste presenze come le Nazioni Unite, il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione Mondiale del Commercio. Il "Board of Peace" richiama molto l’idea di un consiglio di amministrazione (un “board”, appunto), che dovrà gestire un affare economico e finanziario colossale, un consiglio che avrà Trump come presidente. Il piano Trump in 20 punti, al paragrafo 9 recita: "Questo organismo (Board of Peace, ndr) definirà il quadro di riferimento e gestirà i finanziamenti per la ricostruzione di Gaza". Gestirà i soldi, proprio come un CdA che si rispetti. E le logiche finiranno per essere quelle del business e non della convivenza internazionale; dell’interesse privato e non dell’interesse pubblico; dell’autoritarismo che oscura la democrazia. Raffaele Liguori ha intervistato Fabio Armao, docente di relazioni internazionali all’università di Torino. È autore, insieme a Davide Pellegrino, di “Distopia americana. L’impatto della presidenza Trump sul sistema politico americano” (Mimesis, in uscita).

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