
Dopo tanti anni il Leoncavallo sembra davvero arrivato a un bivio. Pende una multa da 3 milioni di euro del Ministero dell’Interno per i mancati sgomberi, la Questura e la Prefettura sono sollecitate dal governo Meloni a sgomberare. Il Comune ha avviato un dialogo per un bando su un immobile in zona Porto di Mare, ma siamo in una fase di stallo.
Dopo 50 anni è ancora importante un luogo come il Leoncavallo? Lo abbiamo chiesto allo scrittore Sandrone Dazieri.
Sì è importante perché il Leoncavallo rappresenta, simbolicamente ma anche concretamente, un pezzo di Milano che ha resistito a tutti i cambiamenti. È un luogo che incarna l’anima della città. Oggi quell’anima viene strappata un pezzo alla volta: centri culturali che chiudono, librerie che si trasferiscono perché non riescono più a pagare l’affitto, problemi di gestione nei musei… tutto ciò che è cultura sembra valere meno dell’apertura dell’ennesimo negozio di mutande. E questo è un problema. Ragionare sul Leoncavallo significa riflettere sugli spazi a Milano, su quelli culturali e soprattutto su quelli non allineati. Il Leo è davanti a un bivio, come tante volte. Li ha superati in passato, ma oggi è più difficile: ha tanti nemici e pochi amici, soprattutto nelle istituzioni. Speriamo invece che dalla base arrivi un sostegno forte.
Il Leoncavallo oggi non è solo un luogo fisico, ma è anche tutte quelle persone che l’hanno attraversato e che oggi sono altrove. Che cosa rappresenta ancora in questa Milano?
È ancora un luogo di libertà, dove puoi essere te stesso senza dover pagare per esserlo. Puoi ritrovarti, bere una birra a basso prezzo, ascoltare musica o confrontarti con culture altre. Milano ha sempre meno posti così. I centri sociali, gli spazi informali, non perfettamente inquadrati nelle logiche dominanti, sono luoghi dove si sperimenta, da cui emergono artisti, musicisti, scrittori. Servono ancora oggi? Sì. Anzi, servono più che mai.
Milano nel 2025 ha ancora bisogno di questi spazi?
Sì perché sta diventando una città virtuale, fatta per i soldi, per i turisti, per gli investitori. È una città finta, dove la vita vera – quella delle persone che la abitano – diventa sempre più difficile. Stanno impoverendo Milano, non economicamente, ma spiritualmente e culturalmente.
Interessante questa definizione di “città virtuale”. Cosa intendi?
Intendo una città che funziona benissimo sulle brochure per gli investimenti a Dubai. Grandi grattacieli, nuove costruzioni ogni due per tre, quartieri “fighetti” circondati dal verde. Ma dietro c’è una città divisa: chi sta nei palazzi e chi vive in periferia, magari con stipendi ridicoli o costretto a rivolgersi alla Caritas – che oggi registra il doppio delle famiglie in difficoltà rispetto a qualche anno fa. È una città che non riconosco più: una volta era la città delle possibilità, anche culturali e sociali, oggi è una vetrina.
Hai un ricordo personale legato al Leo che vuoi condividere?
Tanti, ma uno in particolare. Mi ricordo il “baretto” al secondo piano del Leoncavallo. Fu sgomberato nel 1989 e abbattuto con le ruspe. Quando tornammo lì dopo un po’, vidi che era rimasto un solo muro, con un poster di Frankenstein ancora appeso. E pensai: “Anche tu sei un mostro e hai resistito, vedremo di resistere anche noi”.