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Chiuso il processo Pélicot, condannato a 20 anni l’ex marito

Gisèle Pelicot: processo di Mazan

Con la voce rotta dall’emozione, Gisèle Pélicot ha letto davanti ai giornalisti un testo che si era preparata per il giorno del verdetto del processo di Mazan. Ha voluto soprattutto ringraziare tutti: i suoi tre figli, gli avvocati, le associazioni di aiuto alle vittime che l’hanno accompagnata dentro e fuori dal tribunale per mesi. E tutte quelle persone che le hanno mostrato, a parole e gesti, il loro sostegno e la loro vicinanza. È nelle loro parole, ha detto, che ha trovato la forza di continuare a presentarsi in aula e ad affrontare una prova che è stata durissima.

Gisèle non ha mai rimpianto la decisione di fare del suo processo un processo pubblico e ha chiuso la sua dichiarazione parlando del futuro. Un futuro che immagina migliore. In cui ciascuno, donna e uomo, possa vivere nel rispetto e la comprensione reciproca.

Ai giornalisti che le hanno chiesto di commentare i dettagli della sentenza, che ha condannato il suo ex marito e aguzzino a 20 anni di prigione e gli altri 50 imputati a pene tra i 4 e i 13 anni, meno di quanto chiedeva la procura, ha solo detto che rispetta la decisione dei giudici.

I suoi figli si sono lasciati sfuggire dei commenti leggermente delusi dalla differenza di trattamento tra il padre, che ha preso il massimo previsto, e i suoi coimputati. Ma la sua dichiarazione lascia trasparire che per lei non sono gli anni di prigione a contare. La realtà, il dato di fatto, è che gli imputati sono tutti colpevoli.

Con loro, Gisèle Pélicot è riuscita a portare alla sbarra tutta una società che è ancora fin troppo clemente con chi non rispetta la nozione di consenso. Con chi pratica e chi tollera le violenze sessiste e sessuali.

La sua dignità, la sua determinazione, la sua decisione di aprire le porte del tribunale per far arrivare in tutte le case l’orrore e la “banalità dello stupro”, hanno fatto di questo procedimento un processo storico. Non solo perché ha riproposto con forza la questione del consenso, fatto emergere la realtà delle violenze coadiuvate dalla sottomissione chimica, reso evidente che siamo di fronte a un problema sistemico – impossibile parlare di mostri o nascondere la testa sotto la sabbia attribuendo la responsabilità a persone problematiche, di fronte all’umanità varia rappresentata dai 51 imputati.

Ma anche perché il suo esempio ha liberato la parola e dato via a un movimento inedito in Francia. Una reazione che ha fatto di lei un’icona e ha soprattutto creato un cambio di paradigma rivoluzionario: non è più la vittima di stupro a doversi vergognare ma sono i suoi aggressori.

La portata di questa semplice verità, che la vergogna deve cambiare campo, avrà delle conseguenze profonde negli anni che verranno. Come ha detto Gisèle, ora sta a noi cogliere l’occasione e costruire collettivamente un futuro migliore. Nonostante quello che ha dovuto affrontare, lei è convinta che sia possibile.l

  • Autore articolo
    Luisa Nannipieri
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