
“Chiunque vuole la pace e ha manifestato per questo, oggi si deve unire e agire in fretta”. Flavio Lotti, presidente della Fondazione Perugia-Assisi per la cultura della pace, intervistato da Radio Popolare lancia l’allarme e rilancia un appello ad associazioni e partiti: “Serve un piano complessivo, serve la politica e c’è poco tempo”.
In che fase siamo, secondo lei?
Stiamo cominciando a fare i conti con le conseguenze di tutto quello che è accaduto in questi anni, e che non abbiamo voluto vedere o ascoltare. Perché alcuni avevano denunciato il pericolo, ma — come spesso accade — ci accorgiamo che l’acqua scotta solo nel momento in cui ci bruciamo le mani. Ecco, siamo esattamente in quel momento.
Non è impossibile pensare di fare qualcosa, ma dobbiamo sapere che siamo in grande ritardo. Perché in tutti questi anni, alcuni commentatori sono stati dall’altra parte, sono stati fomentatori di questo disordine e di questa rottura dell’ordine internazionale.
Quindi, va bene, oggi accogliamo tutti i punti di vista, però il vero problema è che abbiamo lasciato distruggere tutte le istituzioni che avevamo costruito per difendere la legalità e il diritto internazionale. Abbiamo smesso completamente di lavorare per la pace, e abbiamo lasciato campo libero alle forze che oggi si manifestano in maniera così platealmente orribile.
Che cosa dovremmo fare? Innanzitutto dobbiamo prendere atto che manca la politica. Se non si ricostruisce una politica di pace, tutti i nostri commenti, tutte le nostre parole saranno soltanto parole al vento. Abbiamo bisogno della politica.
Questo è il momento in cui gli organizzatori delle tre manifestazioni che ci sono state in questo mese di giugno — il 7 giugno a Roma, organizzata dalle tre forze politiche dell’opposizione; il 15 giugno a Marzabotto, promossa da un ampio gruppo di organizzazioni e dal Comune di Marzabotto; e il 21 giugno, sempre a Roma, promossa da un grande cartello contro la corsa al riarmo in Europa — devono ritrovarsi immediatamente per promuovere un’iniziativa complessa. Perché non basta scendere in piazza: serve un’azione articolata, ma fortissima.
E in questo deve esserci l’inizio della ricostruzione di una politica di pace. Perché la politica non la fa solo il governo, la fa anche l’opposizione. E in questo momento l’opposizione è troppo debole, troppo fiacca, e ancora non sta facendo quello che dovrebbe.
Un anno fa, quando abbiamo lanciato l’appello “Prima di tutto la pace” marciando da Assisi, quasi nessuno ha raccolto quell’appello. Eravamo in pochi.
Il problema è che ogni giorno che passa perdiamo uno degli strumenti per rendere efficace l’azione politica. Questo è il punto: noi non abbiamo bisogno di dire, abbiamo bisogno di fare. E di fare cose che oggi sono diventate difficili. Ma il fatto che siano difficili non vuol dire che siano impossibili. Quindi bisogna provarci, ma non ci si può provare con l’improvvisazione: abbiamo bisogno di prendere sul serio, ciascuno, le proprie responsabilità.
Non stiamo assistendo a qualcosa: siamo ormai travolti da qualcosa. E quel qualcosa è orribile.
O si riunisce un comitato di emergenza che metta insieme le forze istituzionali e associative della società civile — tutte consapevoli dei propri ruoli e delle proprie responsabilità — per cercare di fronteggiare questa situazione, oppure potremmo ritrovarci qui, magari il prossimo 12 ottobre, durante la marcia Perugia-Assisi, a piangere senza avere strumenti concreti per agire.
E piangere è necessario, perché c’è da vergognarsi per quello che sta succedendo, per quello che il nostro governo sta facendo e non facendo a Gaza. Lo ripeto: l’Italia deve organizzare una missione per salvare quelle persone. Non cento: centomila.
Lì ci sono almeno due milioni di persone che stanno morendo, e che vengono ammazzate da quelli che noi consideriamo nostri alleati, con i quali scambiamo telefonate, concordiamo piani industriali, strategie dei servizi segreti, piani di sicurezza, visioni delle cose. Ma ragazzi, di che cosa stiamo parlando?
Forse c’è un pezzo da guardare meglio: il come ci si è arrivati a questo punto. Perché quelli che oggi parlano come te — ma anche quelli che già parlavano come te in passato — adesso trovano compagni di strada contingenti, che magari sono gli stessi che, quando voi facevate questi discorsi all’inizio dei bombardamenti in Ucraina, vi accusavano di essere “filo-putiniani”. E vi dicevano che quelle posizioni favorivano un’escalation che non poteva che portare a un’estensione globale della guerra. Il linguaggio della politica, allora, non prestava orecchio a quel tipo di discorso. Com’è che, passo dopo passo, si è arrivati fino a qui?
Quando ci hanno dato e continuano a darci dei “putiniani”, in realtà stanno manipolando la verità. Perché noi siamo i primi a essere contro tutti i criminali, siano essi capi di Stato o cittadini comuni.
Siamo contro tutti quelli che uccidono sistematicamente, che distruggono le persone, ma anche la democrazia, la libertà, gli spazi di movimento. Per esempio, il famoso decreto sicurezza in Italia non è scollegato da tutto questo: è parte di quel regime di guerra che agisce secondo uno schema di guerra. E in uno schema di guerra non si tollerano le posizioni divergenti. Questo è il punto.
Siamo arrivati a questo perché una gran parte del sistema politico, mediatico e industriale ha voluto che si arrivasse qui, illudendosi di avere comunque un’isola di salvataggio. Ma quell’isola non esiste più. Infatti, con Trump è venuto meno il pilastro centrale che reggeva quell’idea folle di potersi salvare da soli.
Oggi, quelli che pensano di salvarsi si stanno costruendo bunker in qualche isola paradisiaca, magari bella dal punto di vista turistico, ma remota. Ed è una follia vera.
E badate, non voglio esagerare, non voglio seminare panico. Voglio generare consapevolezza e mobilitazione. Perché oggi la parola che manca è “responsabilità”. E che cos’è la responsabilità? È la capacità di rispondere ai problemi.
Oggi non si riesce più a rispondere ai problemi della fine della globalizzazione, dell’esplosione delle disuguaglianze, così come non si riesce a rispondere a questi “matti di guerra” che stanno distruggendo la possibilità di vita nella nostra parte del mondo. Perché badate: non tutto il mondo farà la fine che rischiamo noi.
Noi siamo nel posto più pericoloso, nel luogo dove oggi si concentrano la maggior parte delle tensioni. E ci siamo dentro fino al collo.
Quando dice “si mettano insieme e decidano qualcosa insieme”, a cosa pensa?
Penso proprio a una riunione. Ne ho parlato, ho cominciato a parlarne con tutti. Perché come Fondazione Perugia-Assisi abbiamo partecipato a tutte le manifestazioni che ci sono state. Le abbiamo incoraggiate, perché abbiamo creduto che tre manifestazioni fossero meglio di nessuna. E vorrei ricordare che, in questo paese, non si è ancora riusciti a organizzare quell’enorme manifestazione che, invece, in altri paesi — come la Gran Bretagna o anche gli Stati Uniti — si è riusciti a fare.
Qui c’è un ritardo, dovuto a varie ragioni. In ogni caso, tre manifestazioni sono state meglio che nessuna.
Ora però siamo di fronte a una crescita dell’emergenza. E di fronte a questa crescita della crisi, io penso che — poiché queste tre manifestazioni avevano tre identità e soggettività diverse — sia arrivato il momento di mettersi insieme.
Quindi propongo che si faccia una prima riunione concreta, che si costituisca un comitato operativo — chiamiamolo come vogliamo — ma che sia in grado di sviluppare un’intelligenza collettiva, che ci aiuti ad affrontare la situazione in modo condiviso.
Nessuno ha in tasca le chiavi: le chiavi bisogna ricostruirle, forse non esistono nemmeno più. Abbiamo bisogno di trovare strade nuove. Invece, vedo e sento che — nonostante alcune lamentazioni e proteste — ci stiamo ancora cullando nell’idea che da noi le cose possano continuare come sono sempre andate. Non è più così. Abbiamo ancora un po’ di tempo dalla nostra parte, prima che le bombe esplodano anche da noi. Però quel tempo va usato. Subito, subito, subito.