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Carcere ed esecuzione penale esterna, Lucia Castellano: “Dobbiamo capire cosa significa punire”

carceri COVID

Il Procuratore della Repubblica di Catanzaro, l’ex Ministro della Giustizia Nicola Gratteri, è recentemente intervenuto sul problema del sovraffollamento in carcere in Italia e sul ruolo delle strutture detentive in Italia, sempre meno orientate alla rieducazione:

Le carceri oggi sono dei contenitori, non si fa rieducazione e trattamento. Io non parlo di lavori forzati ma di campi di lavoro. Un tossicodipendente quanto entra in comunità lavora otto ore al giorno e poi fa un’ora o due di psicoterapia. Perché invece un detenuto deve stare otto ore al giorno davanti al televisore? Quando esce perché dovrebbe cambiare? Ma se invece usiamo il lavoro come terapia, come rieducazione, come trattamento allora le cose cambiano.

Ne abbiamo parlato con Lucia Castellano, Direttore Generale per l’Esecuzione Penale Esterna e di messa alla prova per il Ministero della Giustizia. L’intervista di Serena Tarabini a Fino alle Otto.

Che cosa ne pensa di questa affermazione?

Io credo che il cammino verso un carcere davvero costituzionalmente orientato, cioè che rispetti tutti i diritti umani compatibili con la mancanza di libertà, sia un cammino molto complicato per una serie di ragioni che hanno a che fare con l’amministrazione penitenziaria, ma non solo. È evidente che parlare di lavoro in questo momento in cui è così difficile dare lavoro e offrire lavoro anche alle persone incensurate o che studiano o che sono fuori, è veramente molto complicato. È assolutamente vero che oggi il carcere non è quello che la Costituzione prevede, ma è anche vero che non può essere soltanto un problema dell’amministrazione.
L’esempio di Bollate, fatto anche dal procuratore Gratteri, funziona perché la città prende in carico il carcere come un pezzo di sé e si crea una sorta di processo di vasi comunicanti: la città entra e vede le persone che sono detenute come una risorsa. Il problema è culturale, prima ancora che politico: nel momento in cui noi che siamo fuori viviamo il carcere come una sorta di discarica e di un luogo lontano dal centro in cui non si vuole vedere che cosa ci finisce dentro, allora è del tutto evidente che malgrado qualunque sforzo di qualunque amministrazione penitenziaria virtuosa il carcere sarà sempre altro da noi.
Io volevo dare dei numeri oggi ai nostri ascoltatori. Questo è un periodo in cui il numero dei detenuti cresce vertiginosamente. Siamo a 60.971 persone dentro le carceri. Non è un tasso di carcerazione molto alto se confrontato con altri Paesi, ma è comunque un tasso di sovraffollamento molto altro rispetto alla nostra capienza.
Abbiamo invece 60.785 in esecuzione penale esterna, cioè che scontano la pena in misura alternativa o, prima del processo, sono messi alla prova. Questo fenomeno significa che oggi crescono contemporaneamente due grandi tronconi: le persone che scontano una pena all’esterno e quelle che scontano la pena all’interno. Questo è un dato su cui la politica, le città e il Paese dovrebbero riflettere. Perché questo aumento esponenziale di tutti e due? Dovrebbe essere l’inverso. Le misure alternative dovrebbero aumentare e la detenzione dovrebbe diminuire.
Un Paese in cui aumentano tutte e due, dentro e fuori, è un Paese che dovrebbe riflettere a lungo sulla sua capacità di punire: c’è un controllo penale sul territorio che si espande e si espande anche il controllo penale intra-media. E questo è un dato inquietante. Dovremmo cominciare a riflettere e far sì che ad ogni infrazione e ad ogni lesione del patto sociale sia data una risposta vera, effettiva, credibile ed efficace e, soprattutto, commisurata alla gravità del fatto commesso. In carcere ci sono circa 5mila persone che devono scontare meno di due anni. Questo significa che oggi non c’è una riflessione di sistema sui numeri che il nostro Paese ci offre.
Se ci sono persone che potrebbero stare fuori perché devono scontare soltanto due anni e invece stanno dentro, se aumentano in modo esponenziale tutte e due le categorie, significa che aumenta la penalità. E questa penalità deve essere credibile, efficace, veloce e giusta. Chi deve scontare soltanto due anni probabilmente farebbe meglio a scontarli sul territorio. La pena scontata sul territorio abbatte i tassi di recidiva. È un fatto. A noi come Paese cosa interessa? Ci interessa di tenere la gente dentro o che quella gente non commetta più reati?
Dobbiamo porci il problema di cosa significa oggi punire e capire qual è la differenza tra chi ha rotto il finestrino di una macchina e chi ha violentato una persona o chi ha rapinato una banca. Ad ognuna di queste persone deve essere data una risposta veloce. O quando ci sono reati minori aspettiamo che maturino tanti anni per poter finire in galera. E questo non va bene.

Quali sarebbero i primi interventi da fare?

Oggi abbiamo un assetto normativo che va solo applicato. Abbiamo una legge del 1975 che dice che il carcere è un posto che contiene delle persone che conservano i diritti che avevano fuori. Se la legge parla di camere di pernottamento e camere di soggiorno è del tutto evidente che si dorme da una parte e si soggiorna dall’altra. A causa del sovraffollamento questo non si può fare e le stanze devono stare chiuse, ma dobbiamo iniziare tutti a lavorare su questo anche insieme alla magistratura. Deve essere un processo corale, una responsabilità collettiva, di capire cosa succede oggi. I detenuti stanno dentro e stanno male perché sono troppi? Proviamo ad occuparcene, proviamo a ragionare sui numeri e vedere il perché.

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