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Tutto su mia figlia

I film di Pedro Almodovar si potrebbero raccontare attraverso i colori, le tinte interiori, le atmosfere e le emozioni che trasmettono. Raramente questo straordinario regista spagnolo, che a partire dagli anni ’80 ha fortemente segnato la storia del cinema, lascia senza reazioni. Ci sono un paio di titoli ricercatamente freddi nella sua filmografia, ma attraverso quella freddezza passano comunque temi e riflessioni pungenti, provocatorie.

“El llanto y la risa” sono due degli ingredienti fondamentali del cinema di Almodovar, a volte la risata resta un sorriso e le lacrime si fermano in gola e con il passare degli anni il pianto sovrasta di film in film l’ilarità. Per ora. Indimenticabile resta Tutto su mia madre, un film profondamente sentito e travolgente, impresso nella memoria di molti. Con Julieta, ancora una volta in concorso al Festival di Cannes, Almodovar riprende quella strada, ponendo al centro della ricerca una madre che indaga sulla figlia. La trama è complessa e non può essere raccontata, Julieta è interpretata da due attrici: Adriana Ugarte e Emma Suarez, giovane e adulta, al momento dell’incontro del suo amore Xoan (Daniel Grao) con la nascita della figlia e nel presente con un nuovo compagno Lorenzo (Dario Grandinetti), una nuova vita e con quella precedente apparentemente rimossa. Nel cast anche Rossy De Palma e Inma Cuesta.

Il linguaggio narrativo si muove tra generi: un po’ noir e un po’ melodramma alternati tra presente, ricordi vicini e lontanissimi. Ogni epoca ha un colore, gli anni ’80 forti tonalità di arancione e blu elettrico, il resto è più tenue e si carica a seconda dei luoghi, Madrid e una località di pescatori, non definita. In questo luogo, e non solo qui, ritornano i quadri alla Hitchcock sempre amato dal regista spagnolo e questo avviene anche per alcuni stati d’animo come il senso di colpa, spesso evocato. L’inquietudine si alterna alla malinconia e ci rivela dietro alla donna protagonista l’ombra del regista.

Se ancora una volta Almodovar evoca qualche fantasma del passato come già aveva fatto in Volver, il tema è ancora più insistente in Personal Shopper, il film in concorso di Olivier Assayas. Già due anni fa con Sils Maria il regista francese aveva scelto nel cast, accanto a Juliette Binoche, l’attrice americana Kristen Stewart, qui protagonista assoluta. Tutto il film è sulle sue spalle, sul suo andare avanti indietro in motorino per le vie di Parigi e in treno verso Londra per acquistare vestiti, gioielli e accessori per la sua capa, prestigiosa manager nel mondo della moda. Questo suo lavoro in permanenza a Parigi coincide con la ricerca per vie spirituali del fratello gemello, morto qualche anno prima per un attacco di cuore.

Ogni giorno tenta di stabilire un contatto extraterreno con lui, persino attraverso messaggi misteriosi sul suo smartphone. È un film pieno di elementi, con uno sguardo originale e un tentativo di portare le immagini a un livello più vicino al subconscio. Non c’è una linearità sul piano razionale, ma intraprende strade nuove e in parte ci riesce. La ricerca del paranormale nasce da studi approfonditi, con citazioni nel film che vanno da Victor Hugo e il Libro delle tavole semoventi di Jersey, testimonianza del suo periodo spiritista, all’artista Hilma af Klint che attraverso le sue opere pensava di dare voce agli spiriti.

In Personal Shopper c’è un senso di morte che aleggia in tutto il film. Più qualche episodio violento e angosciante. Impossibile non pensare a quello che è successo a Parigi nel 2015, alle stragi di Charlie Hebdo e al Bataclan. Sicuramente in parte era nell’aria e pensato in fase di scrittura, ma oltre a questo il film è stato girato a cavallo del 13 novembre 2015 ed è evidente che uno degli stati d’animo più insistenti intorno alla protagonista sono il panico e la paura.

  • Autore articolo
    Barbara Sorrentini
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