Tra Buddha e Jimi Hendrix

Quella volta che Manu Chao attraversò la terra dei narcos suonando gratis per i poveri del far west del mondo

In un mondo della musica dove sempre più spesso si è costretti a scendere a compromessi in nome del mantenimento del proprio seguito, ogni tanto sopravvive qualche artista davvero libero, con una mente aperta, degli ideali autentici, una coscienza limpida, e che delle regole non scritte dello showbiz se ne frega bellamente. E se quell’artista è vero, sincero e ispirato, alla fine è probabile che l’abbia vinta lui. Lo so, lo so, quelli così si contano sulle dita di una mano, eppure ci sono. Esistono e se desideri amarli, prima o poi la loro musica ti troverà.
Uno di questi è sicuramente Manu Chao, e lo è oltre ogni ragionevole dubbio. Parliamo di un tipo incredibile, incredibile sul serio. Nato in Francia da genitori spagnoli, nelle sue vene scorre sangue basco e galiziano. Con la Mano Negra, il gruppo con cui ha ottenuto un importante successo internazionale, mescolava influenze di ogni tipo, spaziando fra caleidoscopi di culture diverse.
Successivamente ha intrapreso una carriera solista, libera e splendente, che per un periodo lo ha fatto assurgere a paladino del movimento no global e delle istanze di tutti i popoli terzomondisti. Quando si è reso conto che qualcuno ne stava strumentalizzando intenti e visione, ha deciso semplicemente di sparire, non parlare più molto con la stampa, registrare sempre meno dischi e viaggiare per il mondo, alla ricerca di progetti che potessero di nuovo accendergli l’anima. Tipo La Colifata. Come dimenticare quel disco? Un album che Manu ha registrato con i pazienti di un centro di malattie mentali di Buenos Aires per finanziare la struttura e l’omonima radio gestita dai pazienti. Consiglio a tutti lo splendido libro “Clandestino – Alla ricerca di Manu Chao” di Peter Culshaw per approfondire il visionario mondo e la vita del “clandestino”.
Mr Chao è uno che non mai fermo, perennemente in viaggio, gli occhi spalancati nel tentativo di capire cosa succede in giro.
A Barcellona è facile incontrarlo al bar Mariachi, un piccolo locale del Barrio Chino dove fanno un idromele buonissimo. O al Bahia, in quella che i barcellonesi chiamano “la Plaza dei Tripi” a bere Horuco in compagnia di una cricca multietnica di artisti, perditempo, geni e sregolati. Ci ho fatto qualche serata anche io col mio amico Tonino Carotone e se te le ricordi vuol dire che non c’eri.
Manu è un tipo difficile da spiegare, uno che non afferri facilmente, tant’è che ha volte viene frainteso.
Don Gallo lo adorava. Durante il G8 mentre Manu era a Genova per un concerto volle incontrare diverse realtà locali per cercare di far qualcosa di attivo durante la manifestazione. Il Don propose di dare vita a punti di ristoro in giro per la città che dessero da mangiare e da bere ai manifestanti. Suggerì di chiamarlo Bar Clandestino. A Manu brillarono gli occhi e disse al Gallo di procedere, che l’avrebbe aiutato. Andrea e la Comunità di San Benedetto al Porto si diedero da fare e nei tre giorni del G8 non so quante tonnellate di pane e litri d’acqua andarono via.
Due giorni dopo un tipo dalla faccia stralunata passò dalla Comunità, chiedendo di incontrare Don Gallo.
“Mi manda Manu” disse, prima di mettere nelle mani del Don un assegno di quasi trenta milioni delle vecchie lire.
Un’altra volta Manu passò da Genova e venne alla “Lanterna”, il ristorante della Comunità San Benedetto, un posto rustico dove ti può capitare di mangiare gomito a gomito tanto con Vasco Rossi che con un tossico che ha appena intrapreso il suo lungo percorso di recupero. Solo che di domenica il locale è chiuso. Allora cosa fece, Manu? Lasciò a Don Gallo una rosa bellissima e un biglietto. Quella rosa gliel’avevano donata i detenuti del Carcere di Volterra per cui aveva fatto un concerto gratuito, senza clamore, senza allertare i media. In silenzio.
È sempre stata questa la sintesi della sua missione: dare voce a chi non ce l’ha.
Oppure mi viene in mente quando venne in Italia a presentare Clandestino e, mentre tutti lo aspettavano al Leonacavalo, se ne andò con la sua banda a suonare in Piazza Duomo davanti a venti extracomunitari.
Ce ne sarebbero mille di aneddoti su Manu, tanti me li ha raccontati Tonino Carotone, che con il clandestino ha un rapporto fraterno. Tanti altri Pacorro, un tipo incredibile di quasi sessant’anni che vive a Barcellona e ha fatto il road manager persino per Joe Strummer.
Ma quello che vi ho raccontato fino ad adesso, andando un po’ a braccio e ripescando da alcune delle notti più emozionanti della mia vita, sono poco più che dettagli, bazzecole.
È stato nel 1993, quando ancora militava nella Mano Negra ed era all’apice del successo con la vulcanica band meticcia da lui fondata, che realizzò qualcosa di incredibile, una storia senza precedenti nel mondo del rock. E lo dico senza timore di essere smentito.
Forse per espiare a uno strano senso di colpa per avercela fatta con la musica, certamente per rompere la monotonia dell’eterna abitudine studio-album-promozione-tour, sicuramente per un senso di genetica empatia verso la gente che possiede poco o nulla, fatto sta che Manu si gettò in un progetto apparentemente da manicomio.
In Colombia, allora, esistono solo 3200 km di binari ferroviari, e la metà risulta inutilizzata; Manu ha un rapporto profondo con il popolo sudamericano, e con quel paese in particolare. Così una bizzarra idea inizia a prendere forma: ridare vita all’antica linea coloniale che trasportava banane e caffè, e portare uno spettacolo itinerante di musica, numeri circensi e allegria in tanti piccoli paesi controllati dallo stato corrotto, dalla guerriglia o dal cartello dei narcos. Il tutto ovviamente gratis, con le spese a carico degli sponsor che accetteranno di sostenerli, e della Mano Negra.
Capito la follia? Considerate che stiamo parlando di un gruppo all’epoca fra i più famosi d’Europa, che con il precedente album, King Of Bongo, ha inanellato critiche entusiaste e vendite insospettabili.
Il piano inizia a prendere vita, Manu trascorre quasi un anno facendo spola fra Parigi e Bogotà per mettere a punto la spedizione. La ferrovia colombiana mette a disposizione della band un deposito per lavorare alla ristrutturazione di un treno dismesso, oltre a chi, fra il personale ferroviario, se la sente di offrire la propria mano d’opera.
Lentamente, fra intoppi burocratici, ritardi e problemi vari, il progetto si concretizza. L’organizzazione richiede un anno intero.
Solo per mettere in ordine i vagoni del treno che trasporterà musicisti, saltimbanchi, trapezisti, mangiafuoco, burattinai e tutti gli artisti che hanno scelto di prendere parte a quella stramba avventura, ci vogliono otto mesi di lavoro. Lavoro duro. Sì perché si tratta di una vera e propria casa viaggiante su rotaia, con tanto di vagone del fuoco che entra in fiamme nelle stazioni, vagone delle comunicazioni per rimanere in contatto radiofonico con Francia e Colombia, vagone del ghiaccio – dove una macchina da vita a un enorme forma di ghiaccio che viene sciolta dalla lingua di fuoco di un’iguana meccanica costruita con materiali di recupero per la gioia dei bambini. Senza scordare il vagone dei tatuaggi e quello adibito a palco per esibirsi lungo la marcia.
In tutto le carrozze sono 21 e, fra tecnici, operai e artisti, vi viaggiano circa 100 persone di varie nazionalità
Il treno, ribattezzato l’expreso del hielo, in onore dello scrittore Gabriel Garcia Marquez, procederà a una media di 20 chilometri all’ora per circa duemila chilometri.
Con la spedizione si imbarca anche Ramon Chao – scrittore, giornalista, autore di libri e responsabile delle trasmissione in spagnolo di Radio France, nonché padre di Manu Chao – che alla fine del lungo tour documenterà l’impresa nel libro Un train de glace et de feu.
Il giro incomincia, ovunque la carovana è accolta da gioia ed entusiasmo, anche se i problemi non mancano: incidenti, mancati finanziamenti, perquisizioni della guerriglia delle FARC, dell’esercito, dei gruppi para-militari foraggiati dai cartelli della droga, il tutto senza sapere se il giorno dopo ci sarà un altro concerto o qualche situazione d’emergenza costringerà tutti a tornare a casa.
La cosa più difficile da spiegare alle varie istituzioni, legali e non, che a turno presiedono la parte interna della Colombia è il perché un gruppo rock francese di buona fama si sia imbarcato in tutto questo, senza guadagnare un dollaro.
Non mancano momenti di tensione, controlli al limite della legalità e paura. D’altronde si sta viaggiando con un treno scassato nella selvaggia Colombia, un far west fuori tempo massimo, fra i territori allora più pericolosi del mondo.
Il 18 novembre del 1993 la carovana arriva a Santa Marta. La Mano è stanca, sono in Colombia da quasi un mese e lo stress inizia a farsi sentire. Jo, il bassista, si è rotto un piede e i promessi sponsor per continuare il tour stanno facendo un passo indietro. Senza considerare che i controlli dei militari a ogni tappa si fanno più insistenti e fastidiosi.
A peggiorare le cose, durante la seconda data a Santa Marta, ci si mette il governatore della città, non esattamente l’idolo dei cittadini. L’uomo pretende di salire sul palco per un breve saluto al pubblico e Manu e i suoi, per evitare ulteriori problemi, sono costretti ad acconsentire. Ma scendere a patti con il potere non è nel nda di Manu Chao e scatta la contromossa. Appena la band inizia a suonare il musicista franco-spagnolo intona el pueblo unido jamas sera vencido, frase simbolo della ribellione in tutto il Sud-America, dal Cile all’Argentina senza dimenticare, ovviamente, la Colombia.
Una follia in un paese in guerra, una follia non senza conseguenze: il giorno dopo quattro membri della Mano Negra lasciano la Colombia per fare ritorno in Francia. Troppo pericoloso restare lì ancora. Quello di Santa Marta sarà l’ultimo concerto della band francese.
Manu invece resta, nonostante la mancanza di sponsor, nonostante le minacce, la paura e i disagi continui. È troppo bello vedere vecchi e bambini poveri che danzano scoprendo sorrisi sdentati al suono delle sue canzoni. E si andrà avanti ancora per settimane finché, ormai a corto di fondi e con il treno ormai a pezzi, la carovana terminerà il suo viaggio.
Manu non ha guadagnato niente da quel viaggio e la sua band è ormai prossima allo scioglimento, che avverrà dopo qualche mese. Eppure quell’esperienza, quei visi segnati dalla vita e dalla povertà, le tante perle di saggezza e verità raccolte lungo il cammino, germoglieranno nella sua mente e faranno un giardino. Un giardino composto di suoni, racconti, abbozzi di idee, frammenti di storie uniche e irripetibili che confluiranno in uno dei dischi più importanti e significativi degli anni novanta: Clandestino.
Molti anni dopo una ragazza di Barcellona partirà per la Colombia, ripercorrendo nel suo viaggio tutto l’itinerario che tanti anni prima percorse la carovana. Con se porterà diverse copie del libro di Ramon Chao da regalare ai tanti campesinos che avevano assistito ai concerti della Mano Negra. Con sorpresa prenderà atto che tutti ricordavano con gioia quell’esperienza, accettando il libro con rispetto e gratitudine. D’altronde quella era la loro storia, la storia di un treno magico che per un po’ di tempo portò follia e libertà d’espressione nel far west del mondo.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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    Piazza Fontana: ricordiamo la strage e la risposta democratica

    Anniversario numero 56 per la Strage di Piazza Fontana, quest’anno oltre alle istituzioni nella celebrazione del pomeriggio parleranno una studentessa di un liceo milanese e uno dei vigili del fuoco che entrarono per primi dopo lo scoppio della bomba, ci spiega Federico Sinicato, presidente dell’Associazione dei Familiari delle vittime di Piazza Fontana. “L’importanza del 12 dicembre va al di là della celebrazione e del ricordo che si fa in piazza, è una data storica per l’intero Paese perché è l’inizio della strategia della tensione che produce effetti devastanti e blocca di fatto il grande movimento di riforma del Paese nato dalle lotte dei lavoratori e degli studenti, basta pensare che l’approvazione del Senato dello Statuto dei lavoratori è del 11 dicembre, il giorno prima, il momento fu scelto come risposta all’avanzata dei diritti e se pensiamo che oggi questi valori vengono rimessi in discussione. E’ una data sacra per il Paese”, In Piazza dopo le celebrazioni istituzionali ci sarà il corteo dei movimenti con partenza alle 18.30 da Piazza XXIV Maggio. E ci sarà anche l’inaugurazione del memoriale “Non dimenticarmi“, un’installazione permanente nata dal basso che ricorda le vittime delle stragi, donata al Comune di Milano e installata in Piazza Fontana. L'intervista di Cinzia Poli e Claudio Jampaglia.

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