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É finita la scuola, ma quale scuola?

«Quest’anno emotivamente è stato difficile, mi è mancato il rapporto con le persone. Restare chiuso in casa… insomma, ho avuto più momenti “no” che momenti di gioie, e molte volte quei momenti di gioia erano una copertura, perché qualcosa non andava».

Chiunque abiti, lavori o semplicemente parli con bambine o ragazzi di diverse età si troverà oramai ad essere familiare con questo tipo di testimonianze. Il periodo pandemico che stiamo vivendo ha avuto dei costi psicologici notevoli un po’ per tutti ma gli effetti sono stati particolarmente acuti per i giovani, su cui abbiamo scaricato le restrizioni più dure: divieto di assembrarsi, divieto di andare a scuola, divieto di fare sport.

Gli adolescenti in questo anno e mezzo sono rimasti privi di voce e di rappresentanza: cosa sappiamo dei loro pensieri sulla pandemia? Quali canali di comunicazione esistono tra le giovani generazioni e noi? La scuola che ci sta a fare, se non si preoccupa di tenere vivo questo canale?

Durante quest’anno, invece, il sistema scolastico si è accontentato della DaD come surrogato della relazione educativa, si è accontentato di esistere formalmente, di non lasciare il vuoto assoluto, senza interrogarsi però con onestà sulla propria efficacia, sui propri compiti rispetto alle sfide poste dalla situazione. Dei giovani allora ci siamo interessati poco. Ad esempio, non ci siamo preoccupati di proporgli delle esperienze per dare un “senso” a questa situazione. Ma cos’altro avrebbe dovuto fare la scuola, se non fornire degli strumenti per navigare il tempo presente?

Oggi martedì 8 giugno chiudono le scuole di tutto il paese e finisce l’anno scolastico, un anno matto e assurdo a pensarci con la giusta calma. Un anno in cui, nonostante lo scoppio della pandemia nel lontano marzo 2020, non si è stati in grado di attrezzare un’esperienza scolastica in sicurezza e degna di questo nome.

L’anno scorso, quando è scoppiata la pandemia, si è creduto che si stesse aprendo una finestra di opportunità per ripensare la scuola, per migliorarla. Durante tutta l’estate del 2020 si era lavorato a costruire Patti territoriali per una scuola diffusa, a progettare ricircoli dell’aria e alternanze orarie, aprendo spiragli di novità nell’organizzazione del tempo e dello spazio scuola. Invece, dopo poco, l’anno scolastico è tornato ad appiattirsi sulla didattica a distanza rendendo ancora più complicato il rapporto di orizzontalità tra alunni e professore, nella propagazione dell’immagine a distanza. Nessuna educazione diffusa, nessuna riscoperta del territorio, nessuna valorizzazione dell’esperienza corporale.

In questo quadro, la Campania è stata la regione più colpita, nella quale le scuole sono rimaste chiuse più a lungo e nella quale, verosimilmente, gli effetti di lungo corso della mancata scolarizzazione saranno maggiori. A differenza del resto del paese, bambini e bambine delle elementari sono rimasti a casa quasi tutto l’anno, salvo poche settimane, dopo che già l’anno scorso era andata così.

In molte scuole napoletane la pandemia ha prodotto degli autentici disastri: alcune classi sono state letteralmente decimate non solo e non soltanto a causa della Dad (che è partita a fatica) ma anche perché è mancata una più generale strategia di vero accompagnamento durante il distanziamento fisico. Alla mancanza di connessione, di dispositivi e di disposizione a seguire le lezioni da remoto, si sarebbe dovuto fare fronte con una strategia ragionata per colmare il senso di abbandono che ciascuno ha provato restando chiuso a casa propria, a mille metri e mille giga dai propri compagni. Qualcuno ci ha provato, con bellissime iniziative per andare incontro agli alunni rimasti soli, come la Didattica dai Balconi.

In generale, però, è stato un anno in cui la scuola si è rivelata per quello che è: una scuola vecchia e stanca, molto procedurale, poco attenta alle dimensioni emotive ed esperienziali. Una scuola, quindi, che produce abbandono scolastico perché non riesce a prendere sul serio i bisogni dei suoi studenti più in difficoltà. Una scuola, questa, che produce sistematici abbandoni.

Che dire, allora? Anche questa volta è mancata la capacità di rinnovare le tradizioni più consolidate, di reagire all’impatto della variabile pandemica con un adattamento delle pratiche educative e relazionali. Si è mostrata tutta l’incapacità dell’istituzione-scuola di affrontare la complessità e lo straordinario (che è poi l’ordinario con cui confrontarsi). Si è vista, poi, tutta la secondarietà della scuola nelle priorità del paese insieme a tutta la dannosa sbornia tecnologica che ha inondato i giornali.

Dopo un anno e mezzo di pandemia sembriamo essere tornati al punto di partenza: non esiste uno straccio di idea per la scuola dell’anno prossimo. Eppure, se vogliamo pensare al domani del paese dobbiamo pensare al domani della scuola e al domani del Mezzogiorno. Allora, l’ultimo giorno di scuola, visto qui da Napoli, con i maestri restituiti alla presenza, che ce la mettono tutta per organizzare giornate all’aperto nei parchi e nelle vie, all’insegna del gioco e della cooperazione, del corpo e della scoperta, sembra l’esempio migliore di tutto quello che la scuola (al sud e non solo) potrebbe essere e non è, con o senza la pandemia.

  • Emilio Caja e Pietro Savastio

    Emilio Caja e Pietro Savastio sono ricercatori indipendenti e collaborano con varie riviste, enti di ricerca e università. Sono stati e continuano ad essere partecipi di diverse esperienze di attivismo politico e sociale. Emilio lavora all'università e ha un piede sotto l’Etna, Pietro lavora nella scuola e ha due piedi sotto il Vesuvio: “da qui” è la prospettiva del Sud da cui guardano al mondo, dopo essere stati a spasso per l’Europa del Nord a studiare e formarsi.

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    Il Maestro, caduta e rinascita di un ex divo del tennis nella Roma degli anni ‘80

    Raul Gatti è un ex campione del tennis caduto in disgrazia, alcolista e disoccupato, interpretato da Pierfrancesco Favino nel film Il Maestro: “Ho seguito il tennis fin da ragazzo e mi sono subito affezionato a questo personaggio perdente, il più fallito che ho interpretato nella mia vita. Perché anche quelli che ho rappresentato in passato, per quanto fossero decaduti, avevano comunque un atteggiamento da vincenti”. Siamo negli anni ‘80 e Gatti viene assoldato per allenare un giovanissima promessa, Felice Milella, un ragazzino di 13 anni con i numeri per partecipare ai match più prestigiosi. Il regista Andrea Di Stefano aveva questo progetto nel cassetto molto prima che il tennis tornasse ad essere uno sport di moda: “Ho scritto questa sceneggiatura nel 2006, l’ho depositata e abbiamo le prove – ironizza il regista. Doveva essere il mio primo lungometraggio, prima ancora di realizzare L’ultima notte di Amore, con Pierfrancesco Favino, a cui avevo già pensato allora per questo personaggio di divo decaduto”. L'intervista di Barbara Sorrentini al regista Andrea Di Stefano e a Pierfrancesco Favino.

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