
“Fantascienza” è un genere abbastanza ampio da includere sotto il suo ombrello racconti e titoli anche molto diversi tra loro. Come, per esempio, due tra i ritorni seriali più attesi quest’anno, in corso con le loro seconde stagioni in questi giorni: The Lasf of Us su Sky e NOW, e Andor su Disney+.
La prima è una serie post apocalittica, ambientata in un futuro molto prossimo in cui la Terra – proprio la nostra, sì – è stata devastata dall’evoluzione di un fungo che, tra le altre cose, rende gli esseri umani simili a zombie famelici veloci e voraci. La seconda si svolge nella galassia lontana lontana di Star Wars e segue la nascita dell’Alleanza ribelle, il movimento resistenziale che nei film di Guerre stellari di George Lucas si oppone al temibile Impero. Per certi aspetti due tipi di fantascienza molto diversi (senza contare che spesso, quando si parla di Star Wars, tra cavalieri Jedi e uso della Forza, viene spontaneo parlare anche di fantasy), eppure non è così pretestuoso accostarle.
Entrambe sono “prodotti da franchise”, cioè serie non originali ma adattamenti o spinoff di universi narrativi già in essere: The Last of Us è l’adattamento seriale di uno dei videogiochi di maggior successo, critico e di pubblico, di sempre, un lavoro considerato spartiacque nella storia dell’intrattenimento videoludico per com’è riuscito a mescolare, e a elevare vicendevolmente, gli elementi narrativi e le dinamiche di gioco. Andor, si diceva, fa parte del sempre più prolifico mondo Star Wars, e nello specifico è il prequel-spinoff di un film che era già un prequel-spinoff, Rogue One – A Star Wars Story, uscito nel 2016 e incentrato sul gruppo di ribelli che ruba i piani della Morte Nera per consegnarli alla principessa Leia (un antefatto che nel primissimo Guerre stellari era solo accennato nella didascalia iniziale).
Sono poi, The Last of Us e Andor, due serie che trovano la propria forza nel prendere profondamente sul serio le premesse narrative in cui si svolgono: partono da un contesto fantascientifico, ma costruiscono personaggi, situazioni, relazioni, dinamiche sociali, il più possibile realistici, autentici. Dunque The Last of Us diventa la cronaca di una civiltà che si disgrega, e fotografa i modi diversi in cui si può perdere la propria umanità, oppure ritrovarla: nel futuro immaginato dalla serie, nonostante la costante minaccia di infetti simili a zombie che s’aggirano tra i resti in rovina di ex grandi città o piccoli villaggi, il pericolo maggiore viene dagli umani sopravvissuti, dal terrore che infiamma le dinamiche tribali e trasforma chiunque in un nemico, dall’empatia che scompare, dal desiderio di vendetta che diventa unica ragione di vita.
Andor, invece, ne approfitta per mettere in scena qualcosa che in una serie televisiva – ma, anche, più in generale, nei racconti audiovisivi mainstream – non si vede molto spesso: come nasce una rivoluzione? Come reagiscono gli esseri umani quando si trovano a vivere in un regime oppressivo, in uno stato di polizia e in un impero aggressivamente colonialista? Come ragiona chi sceglie di adattarsi, magari anche di approfittarne per fare carriera, e come invece si muove chi decide di animare la resistenza? Se nella prima stagione avevamo osservato le scintille della ribellione accendersi in modo spesso spontaneo, in questa seconda annata – che arriverà fino agli eventi di Rogue One e al finale che già conosciamo – l’attenzione dello sceneggiatore Tony Gilroy si sposta su atti molto pratici, sulla quotidianità della vita in clandestinità e dello scontro di guerriglia, sui sacrifici che richiede a chi vi si dedica.
Sono serie felicemente “adulte”, sia The Last of Us sia Andor, che naturalmente parlano soprattutto del nostro presente anche se si “travestono” da fantascienza: decisamente più pessimista, perfino nichilista la prima, così concentrata sulla tragica fallibilità umana; più esplicitamente militante la seconda, che celebra l’essenzialità della lotta pur non negandone sofferenze e contraddizioni. Se hanno un’ultima cosa che le accomuna, è il suggerimento che, da soli, siamo perduti: è l’unione, insieme alla capacità di immaginare un’alternativa migliore, la nostra unica possibilità.