Il conducente dell’autobus che ci porta dall’aereo alla zona arrivi dell’aeroporto di Damasco guida con una mano sola. Con l’altra deve tenere chiusa la portiera alla sua sinistra. Non ha molte alternative. La prima sensazione che ti dà la Siria a un anno dalla caduta di Bashar al-Assad – l’anniversario sarà tra pochi giorni – è quella di una profonda precarietà. La volontà di tutti, o quasi tutti, sembra quella di guardare avanti, di non ripetere quanto successo nell’ultimo mezzo secolo – prima una lunghissima dittatura, poi un’estenuante guerra civile. Ma allo stesso tempo si percepisce una grande fatica nell’individuare la strada giusta per andare avanti. La stessa difficoltà che sta facendo il conducente dell’autobus all’aeroporto di Damasco, che, però, non si ferma. I continui black-out elettrici, la mancanza di acqua, la povertà diffusa, sono esempi ancora più concreti, soprattutto se pensiamo che colpiscono una popolazione che arriva da un periodo infinito di sofferenze, fisiche ed emotive. Sofferenza che sta tutta nello scenario di distruzione totale in una buona parte della cintura intorno a Damasco, per esempio a Jobar o Douma, ex-roccaforti dell’opposizione armata al vecchio regime che Assad aveva punito con assedi, bombardamenti a tappeto, attacchi chimici. Vale lo stesso per il centro di Homs.E anche quando la ricostruzione è cominciata – i progetti con fondi che arrivano per esempio da Turchia e Qatar non mancano – procede tutto a rilento. Nelle scuole, quando va bene, si fa il doppio turno. Uno al mattino, un altro al pomeriggio. I siriani ci invitano spesso a lasciare la nostra prospettiva occidentale: riusciranno i nuovi governanti a garantire la convivenza tra i vari gruppi etnico-religiosi? Il nuovo leader, Al Sharaa, eviterà l’avanzata del radicalismo? La nuova Siria sarà democratica?Per loro le domande e le aspirazioni sono altre, più semplici. L’asticella, dal nostro punto di vista, si abbassa.
I siriani vogliono prima di tutto vivere e mangiare. E poi c’è la necessità di fare ordine, di digerire senza dimenticare, rispetto a tutto quello che è successo prima. Voltare pagina non può voler dire dimenticare.
Ce lo ricordano i familiari dei tanti siriani scomparsi sotto Assad, centinaia di migliaia.“Per affrontare il futuro – ci spiega Leena, che da anni cerca suo fratello – abbiamo bisogno di giustizia”.
Davanti al Mar Mediterraneo di Tartous – nella zona alauita ex-roccaforte degli Assad – Kemal, dentista e interprete, qui è meglio fare due lavori, ci spiega che “la Siria è come una donna in gravidanza che deve ancora partorire, non sappiamo quello che sarà”. Forse Kemal ha ragione.


