
Si potrebbe cinicamente chiedersi, a questo punto dell’orrore, se siano di più i palestinesi salvati dalla morte per fame grazie al contagocce degli aiuti della Gaza Humanitarian Foundation o quelli ammazzati davanti ai centri di distribuzione dai proverbiali colpi di avvertimento dell’esercito israeliano, con una ciotola in mano e la pancia vuota crivellata di colpi. Ma il fatto che siamo ormai abituati a tutto: i lenzuoli bianchi e i bambini scheletrici, i palazzi sventrati con la gente dentro e le amputazioni senza anestetico, le famiglie sterminate e le donne senza più lacrime, insomma tutto quello che da due anni a questa parte guardiamo distrattamente scorrere sui nostri telefoni, non ci solleva dal mettere in fila alcune cose ormai fin troppo chiare. Questa non è una guerra, è un massacro alimentato dalla sete di vendetta. E questi non sono incidenti: la disorganizzazione programmatica, l’improvvisazione della macchina degli aiuti sono funzionali alla umiliazione dei sopravvissuti (perché chiunque sia vivo oggi a Gaza è un sopravvissuto). Le gabbie, dove i gazawi vengono lasciati per ore sotto il sole nella speranza di ricevere un pacco di farina, non sono una risposta alla prevedibile ressa intorno ai centri: sono un’oscena rappresentazione dei rapporti di forza. L’intera operazione messa in piedi da Israele e Stati Uniti non ha nulla di umanitario: ha uno scopo militare chiarissimo, costringere le persone a spostarsi da dove sono per permettere all’esercito di operare più comodamente. E gli attori internazionali, l’opinione pubblica, alla fin fine si sono fatti bastare questo, che la popolazione non muoia proprio subito, o proprio tutta, di fame. Passiamo dunque alla prossima guerra.