
Un primo ministro che questa mattina presenta le dimissioni meno di un mese dopo la nomina, dichiarandosi di fatto incapace. Un primo ministro che si dimette 15 ore dopo aver presentato e nominato ufficialmente, ieri sera, 18 ministri — dunque oggi tutti dimissionari — e che non avrà presieduto neppure un solo Consiglio dei ministri.
Nel pomeriggio, un nuovo sussulto: lo stesso primo ministro dimissionario è stato incaricato dal presidente di un ultimo ed estremo tentativo di trovare un compromesso, anche a costo di cambiare la lista dei ministri nominati ieri sera. È l’ultimo episodio clinico dell’interminabile agonia del macronismo, e gli aggettivi per qualificarlo vanno in una lunga panoplia, dal desolante al grottesco. Ma, per restare sull’aspetto clinico, il sintomo è senza precedenti e di una gravità inedita.
Sébastien Lecornu, l’effimero primo ministro da baraccone di cui sopra, è davvero il più fedele, il più fidato, il più instancabile degli uomini del presidente. È l’ultimo dei macronisti, come si dice “l’ultimo dei cani”: dopo di lui, l’oblio. E si è bruciato in un lampo, in qualche settimana, come un meteorite in una notte d’ottobre. Segno — o piuttosto sintomo — che la malattia della seconda presidenza Macron è gravissima, forse in fase terminale.
L’ipercentro liberale pigliatutto, inventato e incarnato dall’ex banchiere d’affari diventato presidente, sta inesorabilmente crollando. Politicamente non è più attrattivo, ma repulsivo, e sempre più isolato. Ideologicamente, la “Smart Nation” dei belli, ricchi e famosi conta certo più miliardari, ma anche più poveri che mai prima, secondo i dati dell’Istat francese.
E infine — ma forse soprattutto — elettoralmente: sondaggio dopo sondaggio, ma ancor più elezione dopo elezione, con le europee e le legislative anticipate di un anno fa clamorosamente perdute, rispettivamente con un 16-20% e con risultati ancora peggiori, se si votasse adesso. C’è stata, ieri, un’elezione per un posto vacante da deputato all’Assemblea Nazionale, nella circoscrizione di Tarn-et-Garonne: provincia, diciamo, anonima — per non dire qualunque — del sud-ovest della Francia.
Il candidato macronista ha raccolto il 5% dei voti, dietro alla lepenista con il 29%, al candidato della Gauche con il 24% e a quello della destra tradizionale con il 17%.
Questo è lo stato attuale di quel che resta delle truppe macroniste: il presidente è più solo e disarmato che mai.
Secondo la Costituzione, gli restano tre possibilità.
La prima è quella di nominare un nuovo primo ministro, dopo averne bruciati tre in meno di un anno — l’ultimo, appunto, in meno di un mese. Ci vorrebbe una svolta clamorosa, come la nomina di un premier di sinistra per una politica antimacronista. È l’offerta del Partito Socialista, con il sostegno dei Verdi e dei Comunisti, ma non della sinistra radicale di Mélenchon.
Seconda possibilità, sciogliere l’Assemblea Nazionale e indire nuove elezioni legislative anticipate, come chiede Marine Le Pen, con la forte probabilità di una vittoria dell’estrema destra e, soprattutto, il possibile collasso definitivo dei macronisti.
Infine, terza possibilità, le proprie dimissioni, ipotesi evocata dallo stesso Macron — assolutamente la più remota — per andare a un’elezione presidenziale anticipata prima del 2027, termine istituzionale del suo mandato.
Comunque vada, la fine del macronismo attende ormai solo la decisione di Macron.