
Il funerale del multilateralismo si celebra in molti luoghi. Da Gaza all’Ucraina, da piazza Tienanmen ai Caraibi. Ognuno celebra la propria forza militare: la Russia sul campo e nei cieli, la Cina in sfilate oceaniche, Israele in versione massacro, gli Stati Uniti con cannoniere contro il Venezuela. Le Nazioni Unite e il Consiglio di Sicurezza, mai riformato, non vengono nemmeno più criticati, essendo ormai stati cancellati dal dibattito internazionale. E questo perché nessuno crede più al potere della politica come modo pacifico per risolvere i conflitti: oggi si pensa che a pagare sia solo la forza. Poco importa poi che la guerra serva per annettere territori non propri, per far cadere un governo o metterlo in difficoltà. Il diritto di difesa “preventivo”, cioè agire militarmente perché si ritiene vi possa essere una minaccia futura, è ormai uno strumento sdoganato che viene usato da tutti. Il primo a invocarlo è stato George Bush junior con le guerre in Afghanistan e Iraq, ora a farlo sono Putin con l’invasione dell’Ucraina e Netanyahu con la distruzione e l’occupazione di Gaza. I negoziati per cercare di porre fine a questi conflitti si scontrano con una radicalità mai raggiunta prima. C’è chi combatte in nome di Dio e chi in nome della patria, ma anche più concretamente per tutelare i propri interessi commerciali. Le armi sono buone per tutte le occasioni e l’elenco dei conflitti che potrebbero aprirsi se questa logica non viene fermata è quasi infinito. Molti focolai sono stati soltanto nascosti o spenti provvisoriamente, ma le cause che li hanno generati, se la politica non agisce, possono riaccenderli in qualsiasi momento. Con l’aggiunta dell’impunità. Dopo la stagione che portò alla nascita, nel 2002, della Corte penale internazionale, quando si credeva che finalmente chi avesse commesso reati gravissimi non l’avrebbe fatta franca, oggi siamo passati al “vale tutto”. I leader dei principali Paesi in conflitto sono accusati di crimini per i quali difficilmente pagheranno. La situazione è troppo complicata per parlare di pace, ma è proprio il momento di ragionare sulla prevenzione dei conflitti, creando stanze di mediazione, istituzioni multilaterali riformate e credibili, e ponendo dei freni all’industria bellica. Non basta chiedere il cessate il fuoco, pur sempre preferibile ai combattimenti, bisogna esigere che la politica riformi, crei, immagini una nuova architettura mondiale. La risposta della UE sul conflitto ucraino, autorizzando l’aumento della spesa per la difesa senza impegnarsi in un vero sforzo per la sua risoluzione, la dice lunga sull’uso smodato della scorciatoia bellicista per nascondere le proprie inadempienze. Anche le piazze dovrebbero non soltanto denunciare, ma anche proporre: il vuoto delle idee va riempito con una spinta popolare, in quanto la pace dev’essere costruita prima dello scoppio di un conflitto. I tentennamenti davanti agli sbandamenti di Paesi fino a ieri alleati non solo indeboliscono l’Europa, ma rinforzano regimi e responsabili di genocidio. L’Europa deve aprirsi al mondo senza pregiudizi, portando in dote le proprie idee di democrazia e rispetto dei diritti. L’Occidente è ormai in declino: il punto, oggi, è se si vuole essere semplici spettatori della costruzione di un nuovo ordine mondiale oppure protagonisti.