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Il trauma di Taranto tra salute e lavoro: una città con il fiato sospeso

Taranto

Per Taranto è l’ennesimo “momento decisivo”.
La fabbrica la sovrasta, per estensione, fumi, la guarda dall’alto dalle sue ciminiere che sputano veleni, polveri rosse che coprono le strade di una città che si sveglia ogni mattina ripulendo il residuo ferroso dai davanzali e dalle porte.

Una fabbrica che è a Taranto, ma non è solo di Taranto. A torto o a ragione, l’acciaieria che fu Italsider e passata dai Riva e da Arcelor Mittal, con la disastrosa collaborazione dei governi che si sono succeduti per gestioni altrettanto disastrose, è considerata ancora strategica, in prospettiva futura, per produrre ”acciaio nazionale”. Anche se, su questo, le visioni sono molto diverse: acciaio per cosa, in un paese che si deindustrializza? Il problema è che a Taranto si trova. E a Taranto i morti, i malati, i bambini che nascono con le sostanze tossiche nel sangue esistono davvero.

Immaginate di avere, nella vostra famiglia, almeno una persona morta/malata di tumore. Immaginate che tutti, nel vostro quartiere, abbiano un parente morto/malato di tumore. Immaginate che vostro figlio di 5 anni abbia i polmoni di un fumatore di 40. Immaginate una farmacia grande come un intero quartiere.

Il trauma è reale, ed è legittimo che una parte della città pensi che quel trauma si possa superare solo con la chiusura della fabbrica, interrompendo quel flusso di veleni, ripulendo tutto il marciume sotto quel tappeto fatto di cemento e acciaio.
Dall’altra c’è chi teme per il proprio lavoro: sono sempre meno, in realtà, sia perché la cassa integrazione ormai è qualcosa di strutturale, ed anche con i piani futuri non si potrà tornare ai fasti industriali di un tempo, sia perché i giovani della città da tempo ormai non legano alla fabbrica il loro destino.

Sono cose apparentemente inconciliabili da tenere insieme. La salute, il lavoro.
I comitati che vogliono la fabbrica chiusa, i sindacati che la vorrebbero aperta.
Soprattutto c’è un assente, ovvero la politica.
Non è impossibile pensare ad una fabbrica meno impattante, ma è impossibile farlo senza prima ripulire quel che c’è.

La politica in questi anni ha tirato a campare: non ha mai preso sul serio una possibile chiusura, usata semmai come minaccia. Mentre sarebbe un passaggio possibile a patto che sia gestito, pensato, realizzato anche mantenendo il tanto lavoro che ripulire quel disastro richiederebbe, prima di realizzare qualcosa di nuovo. Ed ha sempre pensato a soluzioni tampone per tenerla in piedi, passando dalla tanta cassa integrazione, continuando a finanziare privati per tirare avanti impianti sempre più fatiscenti e pericolosi, per chi ci lavora e chi ne sta fuori.

“L’accordo di programma” di cui si discute ora non è nulla di diverso. Un forse, un se, che mantiene il carbone ancora per anni prima di passare a forni elettrici alimentati comunque col fossile, col gas, aggiungendo un ulteriore problema, una nave rigassificatrice nel porto o un ulteriore sviluppo del gasdotto Tap. “Torneremo a produrre 6 milione di tonnellate di acciaio” si ma chi le compra? “Per fare le armi” dice qualche sindacalista. E con quali occupati? Comunque non quelli di oggi. Un’acciaieria all’Italia servirebbe, se davvero si volesse tornare a fare politica industriale, ma è del tutto evidente che non può essere una città a patirne conseguenze così pesanti.

I fatti degli ultimi giorni, le dimissioni del sindaco poi ritirate, le ambizioni malcelate di un presidente regionale uscente, i partiti incapaci di prendere una posizione, un governo sostanzialmente disinteressato alla città. “Taranto è un laboratorio dei fallimenti della classe politica” scrive non a torto il giornalista tarantino Gaetano De Monte su Il Domani. Ma anche il dolore della città, con gli animi che comprensibilmente si scaldano nell’ennesimo momento chiave. “È una spaccatura senza fine e sarebbe troppo comodo giudicarla. Va letta, però, e misurata politicamente, quello si, specie se ne vogliamo trarre insegnamenti per lotte che ricompongano le resistenze allo sfruttamento e alla nocività”. scrive il ricercatore Francesco Bagnardi. Taranto ha bisogno di curare le ferite, di sentirsi considerata e parte viva di qualcosa, mentre ancora una volta le decisioni sembrano passare sulla sua testa, costi quel che costi.

Nel 2019 il nostro inviato a Taranto Massimo Alberti aveva curato uno speciale, “Cronache Tarantine“, un racconto ancora fortemente attuale e corale dalla voce dei suoi cittadini, dei suoi operai, tra sofferenza, le speranze.
Ve lo riproponiamo oggi, come allora nel mezzo dell’ennesima crisi.

  • Autore articolo
    Massimo Alberti
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    È da poco uscito il secondo EP di Wayloz, artista italo-nigeriano che oggi è passato a trovarci a Volume per suonare alcuni brani. “Mentre nel precedente ep ho voluto catturare l’essenza di ciò che ero io con la chitarra in mano, qui c’è molto più spazio per gli arrangiamenti e per altri strumenti musicali”, spiega Wayloz. Tra folk primitivo, altrock, blues e suoni dell’Africa tribale, il disco è un viaggio tra atmosfere desertiche e rurali, che esplora il rapporto con la natura ma non solo: il titolo “We All Suffer” è più che altro un invito a riconoscere una condizione che è di tutti e a “trovare solidarietà e fratellanza con le altre persone”. L'intervista di Elisa Graci e Dario Grande e il MiniLive di Wayloz

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    Da Cortina a Milano in 12 giorni errando per antiche vie

    Errando per Antiche Vie è una grande azione performativa in cui artisti e pubblico percorrono a piedi la distanza che separa Cortina e Milano, tra il 5 e il 16 dicembre, a un mese dall’inizio delle Olimpiadi, per raccontare un territorio incredibile, contraddittorio che per la prima volta viene messo in luce dalle Olimpiadi. Un cammino lungo oltre 250 km, spettacoli teatrali e di danza, letture, pasti di comunità, incontri e dibattiti: un racconto della montagna fatto di sostenibilità, di protagonismo dei territori alpini e prealpini, di chi decide di vivere e lavorare in quota e nei territori periferici, al di là della spettacolarizzazione del momento olimpico. Michele Losi di Campsirago Residenza ha raccontato a Cult tutto il percorso. L'intervista di Ira Rubini.

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