
Il Leoncavallo ha attraversato molte stagioni: sgomberi, rioccupazioni, mobilitazioni. Ma ora sembra davvero arrivato a un bivio. Che ne pensi?
Secondo me siamo in un momento di resa dei conti generale. Vale per Milano, ma vale anche per altre realtà grandi e piccole. E anche per chi, come me, fa un mestiere come questo. Ti faccio un esempio: una settimana fa sono stato al centro sociale Cantiere, che un tempo era il Derby Club. Il tempio del cabaret milanese. Io ho iniziato così, raccontando storie, facendo spettacoli, ed è quello che continuerò a fare. Ricordo che agli inizi, quando facevo spettacoli davanti alle fabbriche occupate, dissi un giorno in assemblea che dovevamo studiare il nostro mestiere per comunicare meglio. Mi beccai l’accusa di essere un attore “con tendenze borghesi”. Fu una botta psicologica, perché non mi sentivo così: io volevo solo strumenti per migliorare il mio lavoro. Poi sono finito al Derby, dove invece mi dissero: “Ah, è arrivato il comunista”. Insomma, ero sempre in mezzo, tra l’incudine e il martello. Senza la falce. Ma ci sono tornato pochi giorni fa e lì si è chiuso un cerchio: ho fatto l’ultimo spettacolo nel tempio del cabaret, difeso oggi da ragazzi di un centro sociale che lo tengono in vita. Tengono accesa una luce.
Le “luci” di cui parli sono gli spazi culturali, compresi quelli informali?
Sì. Le luci sono i luoghi dove si fa cultura, dove si creano relazioni, dove si tiene viva una comunità. Che siano teatrali, sociali, informali. Io, anche se ho preso la residenza a Trieste, credo che tornerò a Milano. Sento che devo farlo, per chiudere quel cerchio. Dobbiamo difendere tutti i luoghi che fanno cultura. In altri paesi d’Europa, quando chiude un teatro o un centro culturale, la gente si mobilita. Qui, invece, no. Ma non è colpa della gente: è che bisogna fare un lavoro di rianimazione, non solo animazione. È quello che ho sempre fatto con il mio teatro. Ecco, io mi metto a disposizione, con la mia arte e anche senza arte né parte.
E Milano, come ti sembra vista da fuori?
La vedo da lontano, ma anche da vicino, perché sono in tournée da un anno e mezzo e giro molto. E ti dico che c’è un filo rosso – anzi, nero – che unisce tante città. Alcune piccole realtà si salvano, e guarda caso sono grandi come un quartiere di Milano: producono benessere sociale, soluzioni creative, esperienze nuove. Ma Milano la vedo volare via. Non solo le edicole, ma i teatri, i centri sociali, i luoghi dove sono cresciuto. Spariscono. Diventano supermercati, garage, appartamenti.
E cosa succede a una città che perde questi luoghi?
Perde tutto. Perché questi sono luoghi dove si sperimenta cultura non imposta dall’alto, informale, viva. Penso a realtà come il Teatro della Cooperativa, che con Renato Sarti tiene in piedi un quartiere intero. Non è solo uno spettacolo: è gente che esce di casa la sera, si ritrova, fa comunità. Già questo è un atto politico. Lo spettacolo deve avere qualità, certo, ma oggi deve avere contenuto. La cultura è anche questo. Io la vedo che vola via, e bisogna mettere ancore, per non farla andare alla deriva. Serve rianimare la città, perché la gente spesso non si rende conto di quello che sta succedendo. E non è presunzione dirlo. Un teatro, un centro sociale, sono luoghi politici anche solo per il fatto che la gente ci si incontra. Non importa cosa si fa lì dentro: già incontrarsi è resistenza.
Ci saluti con un tuo ricordo particolare legato al Leoncavallo?
Sì, ne ho uno che è diventato un po’ mitico. Una volta feci uno spettacolo sul tetto del Leoncavallo, in una situazione molto simile a quella di oggi. È anche citato in una canzone dei Gang. Mi ricordo che c’era il pubblico per strada e io sopra a fare lo spettacolo, come i Beatles… solo che loro avevano un tetto solido e pellicce, io invece avevo sotto ai piedi tegole scivolose e un equilibrio precario. Ma io sono brevilineo, quindi sul tetto ci sto meglio degli altri.