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L’avanzata silenziosa dell’autoritarismo: intervista a Carlo Bordoni

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In un’epoca segnata da crescenti tensioni sociali, derive autoritarie e trasformazioni legislative discutibili, il sociologo Carlo Bordoni, autore del recente saggio Ethical Violence, riflette su quanto accade oggi nei sistemi democratici contemporanei, con un focus sui modelli statunitense ed europeo. Raffaele Liguori, nella puntata di Pubblica del 12 giugno 2025, esplora con lui i segnali allarmanti di un ritorno a forme di repressione legittimata.

Carlo Bordoni, sociologo, grazie per essere con noi. Partiamo subito da quello che stiamo vedendo in diverse parti del mondo: violazioni della legge che non sembrano frutto di distrazioni, ma scelte programmatiche. Da dove nasce questa crescita delle vocazioni autoritarie? Penso a leader come Trump, Milei, Orbán e anche alla Presidente del Consiglio italiana, Giorgia Meloni, con il decreto sicurezza ormai trasformato in legge.

Bisogna andare molto indietro nel tempo. Le radici di questo fenomeno stanno proprio nell’origine della modernità. Il Leviatano di Hobbes, per esempio, prevedeva un sovrano assoluto, dotato del potere – anche violento – di mantenere l’ordine.
Nel corso dei secoli successivi, dalla fine del Seicento in poi, la modernità si è trasformata in uno spazio più accettabile in cui vivere, grazie alla progressiva democratizzazione. Ma oggi assistiamo a una inversione di tendenza. È una riflessione condivisa da molti sociologi e filosofi in questi mesi: l’autoritarismo statale sta aumentando in modo esponenziale, in tutto il mondo.
Non parliamo solo degli Stati Uniti o dell’Europa orientale: ovunque si riaffacciano principi che credevamo superati. Un tempo, i regimi autoritari prima usavano la violenza interna per reprimere il dissenso, e poi quella esterna. Pensavamo che la civilizzazione avesse spento queste tendenze, ma evidentemente non è bastato.

Nessuno oggi parla apertamente di golpe o colpi di Stato nei casi che citavamo. Però c’è il timore che ci si stia avvicinando, gradualmente, a qualcosa di simile. Una transizione da democrazie formali a regimi autoritari. Ci vengono in mente immagini del passato: l’11 settembre del 1973 in Cile, per esempio…

Sì, è vero. Questi segnali ci fanno riflettere. Alla fine del secolo scorso si parlava della crisi dei nazionalismi. E invece, oggi, li vediamo rinascere con forza.
Tempo fa ho avuto una conversazione con Richard Sennett, sociologo americano molto conosciuto. Mi diceva che, nonostante l’elezione di Biden, secondo lui gli Stati Uniti si stavano avvicinando a una forma di fascismo o forme di governo alquanto simili. E in effetti, oggi vediamo uno Stato che usa la violenza interna come strumento di repressione, per consolidare il proprio potere.
È molto preoccupante che tutto ciò accada proprio negli Stati Uniti, da sempre considerato il simbolo della democrazia moderna.

In un passaggio di un’intervista pubblicata sul quotidiano Domani, firmata da Martino Mazzonis, il giurista Scott Cummings dice: “Ciò che sta accadendo in California sembra tratto da un manuale dell’autoritarismo: creare una giustificazione legale per invocare maggiori poteri. Trump ha usato le proteste – sostanzialmente pacifiche – per inviare la Guardia Nazionale, affermando falsamente che fosse in corso un’emergenza nazionale.”
E aggiunge: “I nuovi autoritarismi non seguono lo schema del golpe vecchio stile, ma usano strumenti apparentemente legali.” È una sorta di gioco di specchi. Cosa ne pensa?

Sono d’accordo. Questi sono colpi di Stato mascherati. Il punto è che il potere di agire in questo modo viene spesso concesso dalle stesse leggi, che danno allo Stato un margine interpretativo molto ampio.
Come spiegava Jacques Derrida in Force of Law, lo Stato si arroga il diritto esclusivo di usare la forza.
Trump, per esempio, ha piegato la legge in modo da usare la Guardia Nazionale come se fosse una forza federale di polizia, cosa che in teoria non sarebbe consentita. Lo stesso governatore della California ha criticato questa scelta.
È un grave stravolgimento del diritto, che trasforma la legge in uno strumento per rafforzare il potere centrale. Ed è ancora più pericoloso se si considera il contesto globale, dove la violenza – non solo quella statale, ma anche quella privata – è in aumento. È un fenomeno che dobbiamo studiare a fondo, perché sembra che, dopo secoli di civilizzazione, l’umanità stia scegliendo la violenza come forma di autoaffermazione.

Un’ultima riflessione. The Economist, in una sua newsletter di ieri, ha parlato del “ciclo di Trump”: segregazione, protesta, violenza e repressione. Uno schema che sembra già scritto prima ancora che si manifesti. Prima si genera il conflitto, poi si interviene per sedarlo, consolidando così il proprio potere. È un’interpretazione corretta?

Sì, assolutamente. Trump ha adottato una strategia che crea incertezza, per poi proporsi come il solo capace di ristabilire l’ordine.
È una forma di manipolazione: genera caos – ad esempio con dichiarazioni su dazi o politiche migratorie – e poi fa marcia indietro, per mostrarsi come il salvatore della patria.
Anche quanto accaduto a Los Angeles si inserisce in questo schema. L’idea è quella dell’“uomo del destino”, quello che può “fare tornare grande l’America”. Ma in realtà sta portando il Paese verso una forma di autoritarismo sempre più marcata.

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