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Quando l’Asse si spezza: Iran, Israele e il Medio Oriente che cambia

Proteste in Iran dopo l'attacco israeliano

In queste ore c’è un elemento che ritorna nelle dichiarazioni ufficiali e nelle parole dei cittadini iraniani che abbiamo sentito: Israele conoscerà la nostra rabbia e la nostra forza. Scriveremo noi la parola fine a questa storia.
Al momento la risposta non si è ancora vista e tra i motivi c’è sicuramente l’indebolimento militare e geostrategico della Repubblica Islamica. Il doppio scambio di attacchi del 2024 con Israele – soprattutto quello dello scorso ottobre – hanno messo fuori uso una parte importante delle difese aeree. Mentre gli sviluppi regionali della guerra a Gaza hanno indebolito o messo fuori gioco gli alleati storici di Tehran, alcuni nati proprio in chiave anti-israeliana, basta citare gli Hezbollah libanesi. Il famoso Asse della Resistenza Sciita, da Tehran al Mediterraneo, non c’è quasi più.

Da non dimenticare poi il grosso fallimento dei servizi che si sono fatti infiltrare dagli israeliani.
Non è un caso che da tempo Netanyahu ripetesse che questa finestra temporale – adesso o mai più – fosse un’occasione unica, da non perdere. Complice oltretutto il sostanziale via libera dell’amministrazione Trump, che seppur contraria a questa operazione, così pare, non è certo riuscita a fermare il primo ministro israeliano. Proprio come sta succedendo con Gaza.

Sulla carta gli iraniani hanno ancora un ricco arsenale missilistico, ma non è certo ci siano le condizioni per utilizzarlo a dovere e soprattutto per colpire Israele in maniera importante.

Per Netanyahu i rischi ci sono, eccome. Questa è l’ennesima scommessa, per un paese che ormai è in una guerra infinita su più fronti. Ma al momento le cose girano a suo favore. E non solo nei confronti dell’Iran. Abbiamo già citato il forte indebolimento o la scomparsa degli alleati iraniani geograficamente molto più vicini a Israele. Abbiamo citato Trump che alza la voce con quasi tutti ma non con Netanyahu. E poi c’è la posizione ambigua dei paesi arabi, a partire dalle monarchie del Golfo. Per esempio nonostante le molteplici condanne per il dramma di Gaza nessuno ha adottato decisioni in grado di mettere in crisi Netanyahu. Certo i sauditi hanno ribadito che un eventuale riconoscimento di Israele possa arrivare, nel caso, solo con la nascita di uno stato palestinese. Ma non potrebbero dire altrimenti, anche solo per la loro opinione pubblica interna, per quello che conta.
Per assurdo negli ultimi anni l’unica vittoria ottenuta dall’Iran, vittoria diplomatica, è rappresentata dal riavvicinamento con i paesi arabi sunniti, un tempo nemici giurati. A Tehran ha riaperto persino l’ambasciata saudita. I paesi arabi potranno garantire agli Ayatollah una via d’uscita da questa crisi? Vedremo. Di sicuro nel Medio Oriente che si sta delineando dal 7 ottobre, e poi dall’arrivo di Trump, l’Iran ha perso l’etichetta di attore più forte, più importante.

E in tutto questo c’è un rischio: come spesso succede nelle situazioni di conflitto chi è nell’angolo può optare per decisioni estreme. Quella di Tehran potrebbe essere quella che Netanyahu dice di voler scongiurare: l’arma atomica.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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