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I conti (non fatti) di Leone con l’ateismo. Intervista a Vito Mancuso

Papa Leone XIV Omelia

Papa Leone XIV e l’ateismo. Nella sua prima omelia (9 maggio, Cappella Sistina) Robert Francis Prevòst ha usato la chiave dell’ateismo, della mancanza di fede, per spiegare le insiede al cattolicesimo contemporaneo. Nell’omelia Leone XIV spiega che è la mancanza di fede a causare drammi come la perdita del senso della vita, la crisi della famiglia e altro. Per il papa le persone – “non solo non credenti, ma anche tra molti battezzati” – che costruiscono un rapporto con Gesù come se fosse un «leader carismatico o un superuomo…finiscono col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto». Questi passaggi dell’omelia del pontefice Robert Francis Prevòst sono stati criticati dal teologo e filosofo cattolico Vito Mancuso, in un articolo sulla Stampa (10.5.25) e ospite ieri a Pubblica. «Il primo passaggio dell’omelia – ricorda Mancuso – pone questa equazione: “no all’ortodossia cattolica uguale ateismo di fatto”. E la seconda, un’altra equazione, è: “ateismo uguale immoralità”. Ecco, su queste due equazioni contenute in quella omelia – conclude il teologo – ho espresso il mio disagio, la mia contrarietà».

I due passaggi dell’omelia — il primo che pone l’equazione “assenza di ortodossia cattolica = ateismo di fatto”, e il secondo “ateismo = immoralità” — sono quelli su cui ho espresso il mio disagio e la mia contrarietà.

Vorrei ripercorrere il suo articolo, perché è molto utile seguire il ragionamento che la porta alla conclusione che ci ha già anticipato. Partiamo dunque da quanto ha scritto, professor Mancuso. Il suo articolo inizia più o meno così: “Fino a prima dell’omelia di ieri mattina — si riferisce all’omelia di Papa Leone — Papa Leone incarnava ai miei occhi una manifestazione perfetta del concerto degli opposti.” Allora, cominciamo dal chiarire cos’è questo concetto del “concerto degli opposti”, perché sarà un pilastro delle sue riflessioni, professor Mancuso.

Guardi, a differenza del protestantesimo, che si muove secondo una logica aut-aut, escludente — basti pensare ai tre soli di Lutero: sola scriptura, sola fide, sola gratia — il cattolicesimo ha sempre avuto una logica et-et, “sia-sia”.
Questa logica si può chiamare complexio oppositorum: una visione armonica degli opposti. Ebbene, riflettendo sull’elezione, dicevo a me stesso: “Ma guarda, è proprio la persona giusta”. È americano, ma per le origini familiari è europeo; è nordamericano, ma è anche sudamericano per gli anni trascorsi in Perù. È un teologo? Certo, ma ha anche una laurea in matematica. È un canonista rigoroso, ma anche un interprete della Chiesa della misericordia di Papa Francesco, e così via. Pensavo — e penso tuttora — che sia la persona giusta, che la scelta sia stata buona.
E proprio per rimanere fedele, a mia volta, a questo principio di onestà intellettuale, quando ho ascoltato quei due passaggi nell’omelia — che ho citato prima — ho sentito il dovere, per la mia professione, di segnalarli. Perché, a mio avviso, non reggono.

E ora vediamo perché, professor Mancuso. Si tratta di pochi secondi, parole densissime, ma comunque pochi secondi. Vediamo insieme i due passaggi che, secondo lei, non sono in armonia con il principio di inclusività del cattolicesimo, quel “sia-sia” di cui parlava. Ecco il primo passaggio dell’omelia di Papa Leone, pronunciata una settimana fa:

“Eppure, proprio per questo, sono luoghi in cui urge la missione. Perché la mancanza di fede porta spesso con sé drammi quali la perdita del senso della vita, l’oblio della misericordia, la violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, la crisi della famiglia e tante altre ferite di cui la nostra società soffre — e non poco.”

Allora, Mancuso, perché questo è uno dei due passaggi che non le tornano?

Semplicemente per la mia esperienza di vita — e non solo mia —, ho visto che ci sono persone che non hanno fede, che non l’hanno mai avuta o che l’hanno persa, e tuttavia sono ben lontane dal ricadere in quei drammi.
Non mettono in atto nessuna violazione della dignità della persona nelle sue forme più drammatiche, come dice il Papa. Non dimenticano la misericordia. Nell’articolo cito Gino Strada: una persona che non aveva fede — perlomeno non la fede in Dio secondo l’accezione cattolica comune —, e tuttavia sappiamo tutti il bene che ha fatto. Non aveva bisogno di quella fede per esercitare la misericordia. Magari la chiamava in un altro modo, ma la sostanza dei fatti era quella.
E quindi, per questo motivo, mi sembra improprio giudicare la mancanza di fede come origine di tali drammi.
Ora, bisogna essere chiari: se con “mancanza di fede” non si intende solo la mancanza di fede in Dio, ma anche la mancanza di fiducia negli esseri umani, nella vita, nei valori che da sempre accompagnano l’umanità — la giustizia, la verità, il bene —, allora posso anche essere d’accordo con quanto ha detto il Papa. Ma bisogna specificarlo.
Nell’omelia, però, era evidente che si parlava della mancanza di fede cristiana, cattolica. E questo, per me — che vengo dalla scuola del cardinal Martini, il quale per vent’anni a Milano ha promosso la Cattedra dei non credenti, fondata sull’idea che esista un “magistero dell’ateismo” da cui si può imparare — è inaccettabile.
Ho anche ricordato nell’articolo la bellissima poesia di Padre Turoldo, che ho avuto la fortuna di conoscere, e il verso: “Fratello ateo, nobilmente pensoso.” Ciò che conta è questo “nobile pensiero”, la ricerca di valori che possiamo definire eterni, oggettivi, che tutte le grandi tradizioni spirituali hanno servito: il bene, la giustizia, la verità. A cui gli esseri umani sono chiamati a mettersi al servizio. Sì, usiamo pure questa espressione: mettersi al servizio.

Quindi è rimasto colpito da quelle parole in sé, proprio come sono state pronunciate.

Sì, da quelle parole in sé. Già nella prima omelia, subito, si propone questa distinzione netta. Mentre il nostro tempo, a mio avviso, ha bisogno — pur mantenendo le distinzioni — di cercare ciò che unisce. I credenti rimangono credenti, i cattolici cattolici, i buddisti buddisti: nessuna confusione, nessun sincretismo. A ciascuno il suo. Ma bisogna cercare ciò che è davvero comune: giustizia, verità, bellezza. Valori che tutti gli esseri umani, di ogni tempo e credo, possono riconoscere e servire, indipendentemente dalla fede.

L’altro passaggio dell’omelia è quello in cui Papa Leone XIV afferma che anche oggi Gesù, pur apprezzato come uomo, viene ridotto a una sorta di “superuomo carismatico”, e ciò avviene non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, i quali finiscono così col vivere “in un ateismo di fatto”. Professor Mancuso, cosa significa per lei questa affermazione?

Significa che o si crede nell’ortodossia cattolica — quella proclamata a Nicea, secondo cui Gesù è “della stessa sostanza del Padre”, quindi vero Dio — oppure si è atei. È un’affermazione senza sfumature, senza gradualità.
Ma io credo — e tutta la storia della teologia lo dimostra — che si possa ritenere Gesù un grande maestro spirituale, un profeta, e non essere per questo atei. Si può continuare a credere in Dio, anche se non si aderisce alla fede niceno-costantinopolitana, quella del Credo della domenica.
Non è giusto equiparare automaticamente l’eterodossia all’ateismo. Questo, secondo me, non è rispettoso della verità storica. Faccio l’esempio di Newton. Si dice spesso che la fede è una debolezza. Ebbene, Isaac Newton, uno dei più grandi fisici di tutti i tempi, era un grande credente.
È vero: molti grandi scienziati hanno vissuto tutta la vita nella fede. Dunque, non è vera l’equazione “fede = ignoranza”. Ma non è neppure vera quella opposta, secondo cui “solo la fede ortodossa è corretta”, mentre ogni altra forma di fede non cattolica è ateismo.
Newton era unitariano: credeva in un Dio unico, non nella Trinità. Non era affatto ateo. Passava metà della vita a studiare fisica e metà a studiare la Bibbia. Ci ha lasciato commenti all’Apocalisse e altri testi esegetici tuttora inediti. Quindi, anche fuori dall’ortodossia, si può vivere una fede autentica.

  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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