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Myanmar, la giunta militare usa la violenza per reprimere l’opposizione

Cittadini birmani residenti in Corea del Sud e attivisti sudcoreani protestano contro il colpo di stato militare in Myanmar di fronte all'ambasciata birmana a Seoul.

Nan Naint è un piccolo villaggio nello stato di Shan, nel sud del Myanmar. È vicino al confine con la Thailandia ed è sulla strada principale che collega lo stato Shan a quello Kayahm, strada che la giunta militare che da due anni governa il Myanmar considera fondamentali per la fornitura di armi ai gruppi di ribelli che combattono contro l’esercito regolare. L’area, poi, è abitata da molti gruppi etnici, compresi i Karen, tra i principali oppositori della giunta. Lo stato Shan, però, è anche quello con il maggior numero di bambini di tutti gli stati e regioni del paese. Negli ultimi due anni questo è un luogo dove i combattimenti si sono intensificati sempre di più, e da dove migliaia e migliaia di famiglie sono dovute scappare.

Sabato mattina l’esercito ha sorvolato il villaggio di Nan Naint con l’aviazione e ha bombardato indiscriminatamente le abitazioni del villaggio, e le persone che c’erano dentro. Qualcuno è riuscito a scappare, e si è rifugiato nel monastero buddista del villaggio, pensando – forse – che i molto rispettati monaci della zona avrebbero garantito loro la sicurezza. Gli uomini della giunta, però, sono entrati nel monastero, e hanno ucciso almeno 30 persone. I video diffusi dal gruppo di difesa dei ribelli Karen, mostrano decine di corpi accatastati alle pareti del monastero, che – a loro volta – mostrano i fori dei proiettili. Ricostruire quanto successo esattamente è difficile, ma la sensazione – secondo gli osservatori – è che i civili che si erano rifugiati nel monastero siano stati messi tutti in fila e giustiziati sul posto. Tra le vittime anche tre monaci buddhisti.
Non è la prima volta che un centro religioso buddhista viene colpito, nonostante il buddhismo sia di fatto religione di Stato e gli stessi capi del regime in più occasioni hanno sbandierato la propria fede. Negli scorsi mesi, altri due monasteri erano stati bombardati. E anche in questo caso si trattava di luoghi che la popolazione riteneva sicuri. E tra le vittime c’erano anche i bambini.

Questo è solo l’ultimo di una serie infinita di violenza e crudeltà della giunta birmana contro i civili, ma la situazione – mese dopo mese – negli ultimi due anni è continuata a peggiorare, nel silenzio generale. Secondo l’ultimo rapporto dell’Onu, discusso lunedì a Ginevra, l’esercito ha creato una crisi umanitaria che viene definita “perpetua”, attraverso l’uso continuo della violenza, tra cui l’uccisione, l’arresto arbitrario, la tortura e la sparizione forzata degli oppositori. Secondo gli ultimi dati, le persone uccise – e la cui morte e identità è stata verificata – sono più di tremila, ma tanti altri rimangono non identificati.

Secondo l’Onu, l’esercito ha adottato il cosiddetto approccio a quattro tagli, che prevede attacchi aerei indiscriminati e bombardamenti, radere al suolo i villaggi per spostare le popolazioni civili e negare l’accesso umanitario per impedire ai gruppi armati ribelli e a chiunque si opponga al golpe militare di accedere al cibo, alle finanze, all’intelligence e alle reclute.
Di storie come questa ne abbiamo raccontate tante, e molte di più non hanno nemmeno raggiunto l’opinione pubblica internazionale. L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Volker Türk, ha sollecitato ancora una volta il sostegno della comunità internazionale per la popolazione, ma come accade da due anni gli appelli sembrano sempre cadere inascoltati. «La speranza è ormai scarsa in Myanmar – ha detto Türk – Il disprezzo per la vita umana e per i diritti umani continuamente mostrato dai militari costituisce un oltraggio alla coscienza dell’umanità».

FOTO| Cittadini birmani residenti in Corea del Sud e attivisti sudcoreani protestano contro il colpo di stato militare in Myanmar di fronte all’ambasciata birmana a Seoul.

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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    “E’ stato bello rendersi conto che la figura di Woodie Guthrie è ancora molto viva anche fuori dagli Stati Uniti”, racconta Sarah Lee, nipote dell’icona folk americana. “Le problematiche di cui cantava lui ottant’anni fa sono ancora attuali”, riferendosi al tema dell’immigrazione e alla difficile situazione al confine con il Messico. Con la sua musica Woody Guthrie "affrontava un concetto molto basilare di umanità e speranza, ovvero il trattare le persone come persone, aiutandosi a vicenda nei momenti di difficoltà": lo stesso messaggio che ora le Guthrie Family Singers vogliono portare avanti. Ascolta l’intervista di Elisa Graci alle Guthrie Family Singers.

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