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40 + 2 anni di Litfiba: dalla cantina a Firenze alla tournée d’addio

litfiba

Si intitola “L’Ultimo Girone”, partirà la prossima primavera e si annuncia come l’ultima tournée dei Litfiba. Poi le strade di Piero Pelù e Ghigo Renzulli torneranno a separarsi, come era già successo nel 1999, ma in maniera del tutto diversa. Lì fu il frutto di una grossa litigata, qui c’è invece un’idea di appagata compiutezza, la consapevolezza di aver fatto un percorso importante nella scena musicale italiana e la voglia di celebrarlo, questo percorso. Un percorso che fin dall’inizio è stato diviso tra l’afflato internazionale e le radici profonde che la band ha nella sua Firenze, la cantina in cui ha trovato il suo suono e il tour bus che li ha scarrozzati per mezza europa.

Abbiamo iniziato con un enorme macchinone” racconta Ghigo, “Un peugeot 504 che era di Piero. Un macchinone che aveva sette posti, cinque comodi e due in piccionaia, molto poco comodi, dove si finiva a turno, visto che eravamo sempre in sette, noi cinque più il tour manager e il fonico”.

PIERO: E soprattutto c’erano gli strumenti, che stavano prima in un carrello posteriore, e poi finirono in un cassone sul tetto, perchè avevamo capito che le nostre economie non ci permettevano di pagare l’assicurazione per il gancio traino. Un cassone psichedelico che ogni volta che andavamo a suonare all’estero, spesso passando dalla svizzera, alla dogana era in pratica una dichiarazione di colpevolezza. Ci siamo ritrovati decine di volte perquisiti pesantemente, a volte lasciando anche regalini nelle intercapedini delle finestre.

Ai tempi le frontiere erano ancora tutte in piedi, e la stessa europa era percorsa da muri che la dividevano in due parti…

PIERO: Muri che abbiamo anche scavalcato. Abbiamo fatto anche territorial pissing a Berlino, dalla parte ovest però. Anche se poi attraversando la Germania Est siamo stati fermati dai “Vopos” ( la Volks Polizei ), perchè stavamo girando un documentario con Corso Salani, e quando loro videro che stavamo filmando con un Super 8 in una zona in cui c’erano delle torrette militari, e quindi era vietato, s’arrabbiarono moltissimo e ci sequestrarono purtroppo quella pizza di girato dove c’erano anche tante immagini del concerto della sera prima a Berlino, che quindi sono andate perse.

Voi avete girato l’est in anni anche particolari, come sono stati gli 80 per quelle zone. Siete stati anche in Russia alla fine del decennio, con la Perestrojka. Com’era suonare in quel contesto?

PIERO: Dipende. Ad esempio a Capodistria, che è a pochi kilometri da Trieste ma era Jugoslavia, ricordo che andammo invitati a suonare da Radio Koper. Il pomeriggio facemmo delle interviste negli studi e c’erano tutti i funzionari della radio, vestiti da impeccabili funzionari dell’est, con quei colori tra il grigio e il marrone, tra il militare e il topo. La sera, dopo il concerto, tutti quei funzionari e conduttori radio erano completamente ubriachi, strafatti di vodka. Questa era un po’ la doppia faccia, da un lato la burocrazia, dall’altro la voglia di divertirsi. Mentre in Russia alla fine degli anni 80, nonostante la perestrojka, comunque abbiamo iniziato a toccare con mano anche le grandi disparità che c’erano tra chi aveva un minimo di potere e il cittadino normale che doveva fare la coda per un pugno di riso e una mela marcia. Tutto questo mentre i funzionari giravano con le macchine importanti.

GHIGO: E frequentavano i ristoranti di lusso per stranieri, dove andavamo anche noi. Solo che a noi andare a mangiare in quei posti costava dieci dollari, che in Russia erano però 200 rubli, ovvero lo stipendio mensile di un operaio. In quei ristoranti trovavi soltanto stranieri e dirigenti del partito.

PIERO: E poi c’era la doppia faccia anche della musica. Quando suonammo a Mosca, insieme ai CCCP e ai Reds, ci ritrovammo in un palasport in cui suonavamo sul campo da gioco, non esisteva il palco. C’era solo una platea, unica, da cinquemila posti, tutta di fronte a noi. Io quando sono entrato ho chiesto “Ma c’è il pubblico?”, perchè in platea erano tutti militari, con i generali in prima fila. Noi suonammo, facemmo la nostra performance, e alla fine gli applausi erano freddi e formali.

GHIGO: Comunque prima di noi c’era stata la ragazza spalla, una versione russa di Sabrina Salerno, che allora da quelle parti era molto popolare.

PIERO: Ecco, per lei invece il generale si alzò, e scoppiò uno scroscio di applausi da parte di tutti e cinquemila i soldati…un boato!

Parcheggiamo un attimo al tour bus e veniamo alla cantina, o meglio a Firenze, che negli anni 80 è un posto molto interessante. C’è una scena in “Divin Codino”, il film di Netflix dedicato a Roberto Baggio, in cui lui, arrivato a Firenze, entra in un negozio di dischi e da li intraprende il suo percorso verso il buddismo. L’idea che arriva è quella di una città molto recettiva….

PIERO: Era una città inclusiva. Firenze negli anni settanta era pazzesca, giravi per il centro e trovavi Ghigo fricchettone con la canna in mano agli uffizi così come gli Are Krishna che giravano per il centro. È stata la città del primo locale gay d’Italia, il “Tabasco”, in Piazza della Signoria, neanche troppo defilato.

GHIGO: Gli Are Krishna avevano una grande comunità a San Casciano, era pienissimo di Are Krishna.

Quanto è stato importante trovarsi li mentre eravate alla ricerca di quello che poi sarebbe stato il vostro sound?

PIERO: Il fatto che la città fosse così inclusiva e open minded, derivando già dalla resistenza e da tutti i grandi intellettuali che ne avevano animato la vita culturale, ci ha permesso di risentire in maniera molto positiva di queste vibrazioni e aperture mentali verso tutto ciò che poteva sembrare anche estremo e inaccettabile per altri modi di pensare. Questo ha fatto si che anche la nostra musica, che partiva da radici punk, post punk, new wave, gothic, black, chiamala come ti pare, poi cominciasse anche a contaminarsi con le musiche dell’est europeo, da cui derivarono canzoni come “Istanbul”, “Ziganata”, “Oro Nero”, “Onda Araba”, “Notte a Dubai”. Tutte cose che hanno costituito la grande radice da cui poi è germogliato l’albero della nostra musica.

Albero i cui rami sono sempre stati belli aperti. Ogni disco ha un suo suono, un suo percorso, anche di senso. Il che credo preveda intanto grosse discussioni all’interno del gruppo, e poi il coraggio di rimettersi in gioco andando sempre incontro all’ignoto, cosa che se all’inizio magari è più facile, dopo un disco di successo significa prendersi dei rischi…

PIERO: È una cosa da cui non siamo mai riusciti a prescindere, proprio per onestà intellettuale. Abbiamo sempre cercato di differenziare il disco in lavorazione da tutto quello che avevamo fatto in precedenza, tanto da poter sembrare addirittura dei continui traditori di quello che avevamo fatto fino a quel momento. Se avessimo avuto un’altra mentalità probabilmente avremmo fatto almeno tre o quattro album come “17 Re”, come “Terremoto” o come “Mondi Sommersi”. Così non è stato, perchè ogni volta ci siamo messi in discussione. Questo per noi oggi è una punta di orgoglio, però quando la vivevamo in prima persona non è stato facile. Io lo dico sempre, a noi gli Oasis ci fanno una sega. Noi litighiamo per tutto, e ne siamo orgogliosi. Rivendichiamo i nostri litigi.

A proposito, c’è quel 1999, quell’anno in cui le strade davvero si sono separate. Che momento è stato per voi quello che è seguito? Tenevate un orecchio su quello che faceva l’altro? C’era un pochino di sofferenza, di amarezza?

PIERO: Personalmente se ho un rammarico in questi 40+2 anni di carriera è proprio quello di aver litigato così pesantemente nel ’99 e non essersi limitati a fare magari ognuno un disco solista per poi ritrovarsi e continuare il nostro percorso. Non ci siamo parlati per quattro anni. Poi piano piano ci siamo recuperati fino a rimetterci insieme nel 2009, felicemente.

Eppure nei vostri primi anni mi pare fosse venuto fuori anche il discorso del club dei 27, quel club di leggende musicali scomparse tutte a 27 anni…

GHIGO: Io quando abbiamo iniziato avevo già 27 anni, quindi ero fuori pericolo. Invece una volta ad un festival un inglese disse a Piero che per fare successo doveva morire lui.

PIERO: Era il concerto di inaugurazione di Mtv in Italia. Avevamo questo live a Castiglion del lago, sul lago Trasimeno, un posto bellissimo. Facemmo un concerto pazzesco. Arrivò il regista della serata e disse: “Cazzo, voi siete fortissimi, però per diventare mitici LUI DEVE MORIRE! Come Jim Morrison!”. E io gli ho detto “Scordatelo, non ne ho nessuna intenzione”.

Come è stato misurarsi con il successo? Quali sono le difficoltà che presenta?

GHIGO: Io penso che sia soggettivo, perchè io l’ho vissuta in un modo e Piero sicuramente in un altro. Personalmente sono una persona abbastanza schiva, non ci tengo molto che mi riconoscano per strada, anzi spesso tento di svicolare se capita. Sono fatto così, è il mio carattere.

PIERO: Indubbiamente quando avvengono degli step di maggior popolarità c’è sempre qualche equilibrio che si rompe. Obiettivamente se tu nasci in una cantina con zero aspettative e pian piano arrivano dei risultati, a volte superiori alle aspettative, c’è sempre un cambiamento. Il feedback è qualcosa che ti cambia, sia che sia estremamente positivo che negativo. Sta a te riuscire a mantenere un equilibrio interno alla band, perchè un gruppo è una cosa vivissima. Sono persone diverse che devono misurarsi giorno per giorno con degli equilibri. Le psicologie, le vite che cambiano con il tempo, le aspettative, i figli che nascono. Una band musicale è un’entità molto complicata, ma anche molto interessante. Per me i Litfiba sono stati la più grande scuola di musica, ma anche la più grande scuola umana che abbia vissuto.

Ora si riparte in tour, con dei live per cui state preparando tantissime canzoni. Lavorare di nuovo su quei brani, vi riporta un po’ al periodo in cui li avete scritti?

PIERO: Assolutamente! Anzi, ti dirò che qualche volta, mentre canto i testi di alcune canzoni, mi sembra quasi di capire cosa volessi dire. Però dopo pochi secondi dico; “Oh cazzo, mi son dimenticato! Peccato, l’avevo capito per un attimo”. Sono momenti di illuminzazione pazzeschi.

Un’ultima cosa. Dopo il ’99 gli Elio e Le Storie Tese vi hanno dedicato il fasmoso “Litfiba Tornate Insieme”. Se magari prima di separarvi di nuovo scrivete un “Elio e Le Storie Tese, tornate insieme”, ci farebbe molto piacere, magari funziona…

PIERO: Sarebbe il minimo!

  • Autore articolo
    Matteo Villaci
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    Il Verziere di Leonardo di sabato 14/06/2025

    Biometano fatto bene e transizione agroecologica per ridurre le emissioni climalteranti degli allevamenti. Legambiente e una parte del mondo degli agricoltori sta affrontando questo aspetto dell’inquinamento dell’aria della Pianura Padana. Il metano è molto più impattante sull’effetto serra dell’anidride carbonica, ottantaquattro volte in più. Se ne è discusso in un convegno alla Cascina Nascosta del Parco Sempione di Milano tra esperti scientifici, esperienze agricole e industriali, in Lombardia e Veneto, di recupero del metano dagli allevamenti. Uno dei focus è l’attenzione alle emissioni fuggitive, quelle nel ciclo del recupero primo e dopo lo stoccaggio nei reattori. Nell’Abc dei Domini Collettivi la professoressa Marta Villa dell’Università di Trento affronta Heimat, il legame con i territori di vita che accumuna gli usi civici di questi luoghi, da lasciare migliori per le generazioni future. Per Le Storie Agroalimentari Paolo Ambrosoni recensisce il libro Storie di Mozzarelle di Germano Mucchetti, un testo sulla diversità delle paste filate più famose, e i territori di produzione. Descriviamo la riscoperta e valorizzazione di grani locali e tradizionali dell’Appennino romagnolo, ma anche del Parco del Ticino milanese, nonché di antichi forni, del fattore alla Cascina Caremma di Besate, di comunità nel borgo di Morimondo e dell’adiacente Abbazia cistercense. Per gli autori fuori porta, geografie e storia dei paesaggi lombardi del Teatro Franco Parenti con la Fondazione Pierlombardo, in collaborazione con la Regione Lombardia, c’è la descrizione dell’agricoltore filologo Niccolò Reverdini dell’arazzo dedicato ai lavori in campagna di giugno, disegnato dal Bramantino ed esposto al Castello Sforzesco di Milano.

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