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“Gli obsoleti”, l’illusione dell’automazione sui social network

obsoleti

Edito di Agenzia X, “Gli obsoleti” è il primo libro che documenta la vita impossibile di quasi centomila specialisti in un lavoro che diamo per scontato, e vale la pena di scoprire. Ne parliamo con l’autore, Jacopo Franchi.

Chi sono “Gli obsoleti”?

Sono i moderatori di contenuti. “Gli obsoleti” è un titolo che viene dai miei studi sui nuovi lavori che nascono con il digitale. Il paradosso è che le moderne tecnologie esistono e hanno questo successo grazie al lavoro di persone che sono, al momento, prive di competenze tecniche e digitali specifiche. Per la loro numerosità, e per costanza del loro lavoro, consentono a piattaforme digitali come Facebook e le altre, di avere successo. Ma per funzionare, devono essere ripulite da una marea di contenuti tossici che potrebbero allontanare utenti e inserzionisti.

Se noi facciamo una segnalazione su un contenuto sui social network, gli “addetti alla sicurezza” cosa fanno? Possono accedere anche ai nostri messaggi privati?

Assolutamenti sì. Questo viene fuori da dieci anni ricerche e testimonianze, che sono emerse poco a poco, perché queste persone sono vincolate da accordi di riservatezza. Quando c’è una nostra segnalazione, dall’altra parte c’è qualcuno che decide se quel contenuto deve essere rimosso oppure no. E se deve essere rimossa o bloccata la persona che l’ha condiviso. Si stima che in media un moderatore prenda oltre mille decisioni al giorno, ogni venti, quaranta secondi.

Il libro di Jacopo Franchi, social media manager e blogger di umanesimodigitale.com, ha deciso di descrivere la giornata tipo di un moderatore,  pressioni psicologiche comprese.

Le pressioni psicologiche arrivano da quel che vedono ogni giorno, contenuti che la maggior parte di noi non immaginano nemmeno possibili. A lungo andare determiantno un turn over molto alto, la maggior parte di loro non dura più di tre, cinque mesi al massimo. Dall’altra parte non sono dipendenti di Facebook o Google, ma in aziende esterne, dove il lavoro viene esternalizzato, e sono costretti a rispettare alti standar. Non possono permettersi più del 2, 5 per cento di errori totali.

Dove si trovano?

Uno dei più grandi centri di moderazione in Europa è a Berlino, per esempio. Se n’è parlato in una rivista tedesca, con questo titolo: “Tre mesi all’inferno”. C’è poi una parte incaricata non di rimuoverli, ma assegnare dei tag per classificarli all’interno di code di revisione. Vengono pagate un tanto al contenuto. E’ un’organizzazione molto complessa, con poche persone nelle piattaforme che prendono decisioni, magari sui casi più difficili, e sulle strategie.

Questa nuova professionalità, oltre a essere davvero usurante, è di fatto uno dei motivi del successo delle tecnologie digitali.

Nel libro insisto soprattutto su come sono, o meglio non sono, stati descritti: sono invisibili. Si è negata la loro esistenza, solo con le prime inchieste giornalistiche si è iniziato a parlarne. Nella prospettiva dell’utente comune non esistono. Non si ha mai la certezza che a rispondere sia un essere umano o una macchina. Questo è funzionale alla reputazione delle piattaforme: hanno insisito per anni sulla loro capacità di eliminare i contenuti con algoritmi, l’idea che invece ci siano dei moderatori è in contraddizione. L’invisibilità serve per minimizzare l’importanza del lavoro manuale nel contesto delle piattaforme tecnologiche.

Anche se involontariamente, hanno messo in crisi molte professioni intellettuali.

Per alcuni anni molte persone, e mi ci metto dentro anche io, sono state anche vinte dall’illusione di una possibile automazione editoriale completa. Anche dei giornalisti, con l’obsolescenza di una mediazione tra mittente e destinatario che poteva essere sostituita dalle macchine. Quella che invece viene fuori è che le macchine continuano a lavorare, ma che accanto deve esserci sempre e per forza un controllo umano.

  • Autore articolo
    Ira Rubini
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