Approfondimenti

Che cosa è successo oggi? – Venerdì 18 settembre 2020

Il racconto della giornata di Venerdì 18 settembre 2020 attraverso le notizie principali del giornale radio delle 19.30, dalle conseguenze della crisi coronavirus sull’occupazione al delinearsi dei due fronti (del sì e del no) in vista referendum costituzionale e agli ultimi comizi della campagna elettorale per le amministrative. L’Europa dell’epoca Covid si scopre a rischio povertà. Negli usa una nuova battaglia della guerra diplomatico-commerciale con la Cina investe i social network. Lo street artist più famoso del mondo, Banksy, perde una causa contro un produttore di biglietti d’auguri che usò un suo grafito. Infine due infografiche sull’andamento dell’epidemia in Italia.

Mai così tanti lavoratori senza rinnovo di contratto

(di Claudio Jampaglia)

Nel privato quasi 8 lavoratori su dieci sono in attesa di un rinnovo del contratto nazionale, 57 i contratti in discussione solo con Confindustria. Si parte dal Più grande , il terziario e servizi che conta da solo più di due milioni di lavoratori, per passare al milione e mezzo della meccanica scaduto l’anno scorso. Tra tessile, alimentare, calzature, mobili, minerario, orafi, occhialeria, pelli, si fa prima a dire chi non deve rinnovare. Ovviamente ci sono i più colpiti dal Covid, in ogni senso, i 150mila del turismo,come il Quasi mezzo milione della logistica e del trasporto merci più o i 300mila delle pulizie e altrettanti delle cooperative del settore socio sanitario e educativo. Fino ai lavoratori della sanità privata che attendono addirittura da 14 anni il rinnovo, ma hanno dato tutto quello che potevano nell’emergenza sanitaria. Se a tutti questi aggiungiamo i 2,3 milioni di dipendenti pubblici, si arriva a quasi 14 milioni di lavoratori e lavoratrici un record negli ultimi 30 anni. In Italia i contratti nazionali fanno in qualche modo le veci del salario minimo presente in altri paesi d’Europa. E le piattaforme sindacali chiedono in media aumenti del 8% del salario. Ma le imprese oltre a resistere su permessi, formazione, contratti a tempo e a chiamata, ormai è evidente che fanno della povertà salariale e della distruzione del contratto nazionale una battaglia politica a cui la politica non ha ancora dato alcun segno di concreta reazione. Eppure l’emergenza delle questione salariale e l’impoverimento di chi lavora in Italia è evidente da anni.

Ultimi sprazzi di campagna elettorale

(di Anna Bredice)

Ultimi comizi prima del silenzio elettorale e molto nervosismo da entrambe le coalizioni principali, che emerge ad esempio con l’appello di Martella, il sottosegretario con delega all’editoria a non diffondere sondaggi, un appello rivolto soprattutto alla Rai, guarda caso ancora gestita da direttori nominati dal governo Lega Cinque stelle. C’è il centrodestra che da giorni narra di grandi vittorie in tante regioni e il centrosinistra che mai come oggi ricorda ciò che è accaduto in Emilia Romagna: Salvini che pensava di avere la regione rossa per eccellenza in tasca e invece non era vero. Un monito che dovrebbe valere per la Toscana, secondo il Pd, ma Salvini è proprio sulla regione del centro Italia che sta puntando tutto. Stasera chiuderà a Firenze la campagna elettorale con gli ultimi comizi. Salvini in Toscana quindi, Zingaretti nelle Marche, e Di Battista in Puglia. La geografia degli ultimi comizi dicono molto delle regioni più a rischio, dove i partiti si preparano ad un testa a testa, una conta all’ultimo voto, per capire se la vittoria va al centrosinistra o alla destra, aiutata magari quest’ultima dalle candidature dei Cinque stelle. E’ il caso della Puglia, dove si trova Di Battista a dare una mano alla candidata grillina, comizi a cinque stelle che in questi ultimi giorni si accaniscono più contro Emiliano che contro Fitto. Da qui la rabbia di Di Maio, convinto che l’obiettivo di Di Battista sia mettere in crisi il governo Conte e l’alleanza con il Pd, più che sostenere la candidata pugliese, perché se si perde in Puglia e in Toscana le conseguenze si pagano anche a Palazzo Chigi, nonostante Conte dica di no.

I sì e i no al referendum

(di Michele Migone)

Sono molto diversi tra di loro i No espressi contro il Taglio dei Parlamentari. Ma lo sono anche i Si detti a favore della riforma. Partono da motivazioni e presupposti diversi. Qualcuno guarda alla sostanza politica del quesito referendario, altri solo alla contingenza di questo voto. Liliana Segre ha annunciato il suo No. Per Lei si tratta di difendere la democrazia rappresentativa da un’operazione innervata di Populismo. La paura che il ruolo del Parlamento, già così sacrificato, venga ancor più svilito. La Segre è in buona compagnia. Molte le personalità democratiche che l’hanno preceduta. È il No della difesa delle istituzioni repubblicane così come sono state pensate dai Padri Fondatori. Per questo il Pd si è diviso. Nicola Zingaretti l’ha schierato per il Si, senza convinzione, per onorare l’alleanza con i 5 Stelle, ma buona parte dei dirigenti e della base non lo seguirà.  Per evitare queste divisioni, la Cgil non si è espressa ufficialmente, pur dando della riforma un pessimo giudizio. Così come in fondo ha fatto Confindustria. Quattro anni fa gli imprenditori dicevano che se non fosse passata la riforma Renzi il Pil italiano sarebbe crollato. Era solo propaganda. Adesso sembrano disinteressati alla riforma, ma in fondo vorrebbero che vincesse il No, tanto per dare una lezione ai Cinque Stelle. È lo stesso messaggio che tra le righe mandano i partiti del Centrodestra.  Hanno votato la riforma ma sperano che i No siano tanti.  Il Si più convinto è quello di Di Maio. È lui il padre del Taglio. L’occasione per riprendersi la leadership del movimento. Forse è per questo che aumentano i No tra le fila grilline. Poi c’è il Si nobile dei Costituzionalisti che pur di vedere attuata una riforma, votano anche questa. Turandosi il naso, ma con la speranza che smuova le acque. E infine c’è il Si di chi vuole ridimensionare la casta. Dovrebbero esser la maggioranza. Ma solo lunedì ne avremo la certezza.

Il rischio povertà si aggira per l’Europa

(di Lele Liguori)

Di povertà la presidente della Commissione Ursula Von der Leyen aveva parlato l’altroieri una sola volta, nel suo discorso sullo stato dell’unione. Oggi è arrivata una doccia fredda: in Europa sono quasi 75 milioni i cittadini che vicino a rischio di povertà, il 16,8% della popolazione a 27 (dati Eurostat).

Com’è distribuito il rischio povertà tra le regioni europee?

In questa classifica della sofferenza ai primi dieci posti ci sono ben tre regioni italiane: Campania e Sicilia, che sono le prime due in assoluto con il 40 e il 41% della popolazione che vive a rischio di povertà, e poi la Calabria. Tra le prime dieci ci sono quattro regioni spagnole (Ceuta, Extremadura, Canarie e Andalusia).
Cosa significa vivere a rischio di povertà?
Secondo Eurostat è una condizione statisticamente complessa che può dipendere da tre fattori:
– se la persona vive in una famiglia che ha un reddito disponibile individuale inferiore al 60% della mediana del reddito disponibile complessivo (approssimativamente circa 10 mila euro l’anno);
– oppure se la persona vive in condizioni di deprivazione materiale, cioè dove non vengono soddisfati bisogni di base: acqua, cibo, medicinali, istruzione, etc;
– oppure se la persona vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, dove cioè gli adulti lavorano al massimo il 20% del loro potenziale dei 12 mesi precedenti.
In Italia il governo Conte ha indicato la lotta alla povertà e per l’inclusione sociale come il terzo pilastro della sua azione nei prossimi mesi. Ad aspettare di vedere qualche risultato non sono solo gli abitanti di Campania, Sicilia e Calabria.

Gli USA bloccano TikTok e WeChat

(di Marco Schiaffino)

Da domenica 20 settembre negli store statunitensi di Android ed Apple non sarà più possibile scaricare TikTok e WeChat.

Le due applicazioni social, entrambe di proprietà cinese, sono infatti finite sotto la scure degli ordini esecutivi 13942 e 13943 promulgati da Donald Trump lo scorso 6 agosto. Secondo l’amministrazione Trump, i due software rappresenterebbero una minaccia agli interessi nazionali degli Stati Uniti.

Stando alle parole del segretario del Dipartimento del Commercio Wilbur Ross, TikTok e WeChat raccoglierebbero infatti vaste aree di dati dagli utenti, inclusa l’attività di rete, i dati sulla posizione e le cronologie di navigazione e ricerca. Insomma: la tesi è che potrebbero essere usate dal governo di Pechino per spiare i cittadini statunitensi. Da lì l’ultimatum di 45 giorni, che prevedeva due alternative: la vendita a un’azienda con sede negli Stati Uniti o il bando delle due app.

Le ipotesi di acquisizione emerse nelle ultime settimane, con protagoniste Microsoft da una parte e Oracle dall’altra, però, non sono andate a buon fine. Sulle due applicazioni, quindi, si abbatte adesso il divieto di download per chiunque si trovi su territorio statunitense. Una decisione senza precedenti, che sembra segnare un prepotente ritorno dei nazionalismi anche nel mondo di Internet.

Banksy e il paradosso del diritto d’autore

(di Valerio Sforna)

“Copyright is for losers”. “Il copyright è per i perdenti”, recita uno dei graffiti più noti di Banksy. Ma in questa vicenda il copyright avrebbe fatto comodo al noto artista inglese. Una decisione dell’ufficio dell’”Unione europea per la proprietà intellettuale”, infatti, rischia di infliggere durissimo colpo al mondo della street art. Banksy, con una sentenza, si è visto negare il diritto d’autore per una delle sue opere più iconiche: il Lanciatore di Fiori, apparsa su un muro di Gerusalemme nel 2003. Il motivo? L’artista si è rifiutato di rivelare la sua identità ai giudici e per questa ragione l’ufficio non è stato in grado di “identificare in maniera chiara e univoca l’autore dell’opera”.

In realtà la vicenda si trascina da parecchi anni. Nel 2014 Banksy aveva depositato un marchio per l’immagine del Lanciatore di fiori presso l’Unione Europea. Ma nel 2018 un produttore di biglietti di auguri londinese, l’azienda Full Color Black, che voleva utilizzare l’opera per i propri prodotti, aveva contestato la registrazione accusando Banksy di aver depositato il marchio in “malafede”, cioè senza la reale intenzione di utilizzarlo a scopo commerciale. Banksy aveva perciò denunciato l’azienda britannica dopo che il Lanciatore di fiori era stato usato per una cartolina d’auguri. Per cercare di spuntarla legalmente, l’anno scorso, lo street artist aveva addirittura aperto uno store a Londra, chiamato “Prodotto Interno Lordo”, per dimostrare che stava utilizzando il marchio registrato. Ma le autorità europee hanno considerato questa iniziativa un modo per aggirare le leggi sul diritto d’autore e hanno condannato Banksy a pagare le spese legali di Full Color Black.

L’artista ora ha due opzioni: fare ricorso entro 2 mesi oppure rivelare la sua vera identità. La prima sembra al momento la più probabile.

L’andamento dell’epidemia di COVID-19 in Italia

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