Approfondimenti

“Tra realtà e speranza, una immaginazione costituente”

Toni Negri

Dopo la prima parte dell’intervista a Toni Negri, che potete leggere a questo indirizzo, vi proponiamo la seconda parte di questo illuminante incontro.

Mi ha colpito, da parte di chi si è fortemente contrapposto al Partito Comunista – la si trovava già anche nella prima parte dell’autobiografia, e qui torna in più punti – la considerazione nei confronti del Pci: e anche l’utilizzo della categoria del “tradimento” della classe da parte del partito.

Cosa vuoi, evidentemente l’atteggiamento nei confronti del Pci è sempre stato ambiguo, nel senso che noi dentro la cultura comunista, rielaborata e costruita in Italia come forza egemone, ci siamo nati: senza il Partito Comunista non saremmo mai esistiti. Il Partito Comunista è il nostro zio, però è uno di quegli zii che hanno dissipato il patrimonio, giocandoselo in avventure democratiche impossibili… Tutto questo è cominciato con il grande realismo di Togliatti, il quale, come uomo dell’internazionale comunista, era in realtà completamente cosciente della posizione dell’Italia negli accordi di Yalta: ma poi questa posizione compromissoria, lucidamente compromissoria, ha perso la sua lucidità. O meglio: prima era una lucidità strategica, poi man mano è diventato lucido da scarpe. Il partito comunista non ha tradito nulla, si è semplicemente trasformato, man mano. I compagni trotzkisti dicono che si è burocratizzato: se si vuole dire burocratizzato, è un termine che può essere utile, in maniera molto descrittiva, e in effetti si trattava di una burocrazia. Però detto questo non si è detto nulla, perché non c’è stata semplicemente burocratizzazione, c’è stata ad un certo punto una compartecipazione a quello che loro pensavano essere il destino positivo e costruttivo del capitalismo. C’è stato un cedimento, se non vuoi chiamarlo tradimento, un cedimento estremamente forte a quella che è stata una valutazione del capitalismo come qualcosa che poteva portare avanti: non si capiva dove, non si capiva fino a quando, perché non lo hanno mai espresso, perché ormai non se lo ponevano più come problema, quello di una rivoluzione a venire. In realtà quello che correva dentro alle élites comuniste dopo – diciamo – il ’56 come primo momento di crisi, è stato un allontanamento sempre più deciso dalle ipotesi marxiane di crisi appunto del capitalismo, e, soprattutto, c’era una completa, assoluta, cecità nei confronti della trasformazione della classe operaia: come è stato possibile negli anni settanta non accorgersi che il capitale aveva giocato sulla distruzione delle fabbriche per passare alla produzione sociale, per introdurre la digitalizzazione del sociale, per muoversi appunto verso nuove forme di organizzazione dell’accumulazione? Questo è stato completamente negato, mentre la difesa dell’interesse operaio è stata chiusa semplicemente in forme corporative. Noi ci siamo trovati in una situazione terribilmente strana negli anni settanta, perché avendo preso coscienza di quella realtà, il nostro tentativo è stato comunque quello di dare continuità alla lotta operaia, ad una lotta operaia che era finita, che era disperata. Quando ci dicevano: ma voi avete preso le armi… Ma non siamo stati noi a prendere le armi, sono stati gli operai a prendere le armi, e non per conquistare il potere ma per difendersi. Prendere le armi è stato un atto di disperazione, perché non c’era altra strada da percorrere. E questa è responsabilità del Pci, intera. Quanto è successo in Italia sul terreno della lotta armata, è responsabilità del Pci, intera, perché non ha dato speranza, e non poteva dare speranza perché era imbecille: dico imbecille proprio nel senso del latino imbecillis, incapace di comprendere quello che succedeva. E probabilmente succube di questo progetto di trasformazione.

Torniamo alle innovazioni teoriche: che a Parigi avvengono anche attraverso l’inchiesta e attraverso l’osservazione di alcuni snodi particolarmente rilevanti delle lotte, l’86 e il ’95.

Quando arrivo in Francia nel ’83 come dicevo il primo anno abbondante è stato non dico perduto, ma insomma è passato in una specie di tentativo di ricollocazione in una situazione molto difficile: si trattava di guadagnarsi da vivere, prima di tutto. Lì ho avuto la fortuna di trovare degli amici che mi hanno dato una mano, e dal momento che non c’era altro da fare, perché all’università era impossibile essere preso perché sono stato sans papiers per anni e anni, mi hanno invece indicato la possibilità di fare il sociologo, e attraverso alcuni amici francesi e altri amici italiani abbiamo messo in piedi una specie di società. Così ho cominciato ad avere degli ordini di ricerca, che riguardavano le trasformazioni del proletariato, delle forme di produzione, e dei processi lavorativi sociali. La prima cosa che abbiamo fatto è stata una descrizione di quello che era avvenuto in Italia nella costruzione dei distretti, utilizzando tutta la bibliografia internazionale che in quel momento era molto molto curiosa di quello che stava succedendo da noi, e trovando poi un esempio classico nella struttura di Benetton, che fra l’altro avevo già studiato perché l’avevamo vista nascere nelle lotte nel Veneto.
A partire da questa descrizione ci hanno subito detto: ma in Francia è possibile che avvengano cose di questo genere? E allora abbiamo cercato sulla filiera tessile di vedere se esistevano cose analoghe, e in effetti esistevano. Non quel fenomeno completamente nuovo di imprenditorialità diffusa che c’era in Italia, dove anche l’ultimo operaio si inventava la sua cantina, con sua nonna che anche lei era inventata come operaia ed era messa al lavoro: in Francia tutto questo mancava, mentre invece c’erano delle grandi filiere, che partivano per esempio dal tessile dei vecchi ebrei del centro di Parigi, che all’inizio erano dei polacchi che cucivano vestiti per la moda, e poi man mano, attraverso i figli, erano diventate delle imprese, che recuperavano tutti gli immigrati che arrivavano, turchi, iugoslavi, eccetera. E su queste cose abbiamo fatto due-tre panoramiche molto larghe.

Poi c’è stato il lavoro sulla Seine-Sant-Denis…

Sì, siamo stati fortunati perché ci è capitata una ricerca su una zona industriale, la Seine-Saint-Denis, sul nord di Parigi, dove c’erano stati praticamente 60mila operai metallurgici, energetici, chimici, che durante gli anni settanta era stata completamente spazzata via. Attraverso amici comuni, l’amministrazione comunista di Saint-Denis, che erano della gente molto intelligente, in particolare un vecchio senatore comunista, ci ha affidato il compito di andare a vedere come si potesse uscire da questa situazione, cosa si poteva fare dentro quei venti chilometri di fabbriche distrutte. Allora lì abbiamo cominciato a studiare, a vedere quali erano i problemi che si ponevano. Uno era che quelli che abitavano lì erano tutti immigrati. Ma le cose più interessanti sono venute fuori vedendo quello che era già stato ricostruito, e cioè fondamentalmente due cose: delle industrie meccaniche già digitalizzate, da un lato, e dall’altro industrie legate alla comunicazione. Ma il partito comunista e l’amministrazione locale volevano che lì ci fosse del lavoro fatto da gente che poi li votasse, come gli operai di prima che erano loro elettori. Abbiamo fatto una serie di iniziative e di ipotesi, fra cui quella di fare un grande stadio: che pensavamo potesse davvero popolare la zona, perché secondo noi per fare un grande stadio occorreva portare migliaia di operai. Quando poi negli anni novanta fu effettivamente deciso di costruire lì lo Stade de France, arrivarono dei camion carichi di computer, ai quali lavoravano forse trecento tecnici, mentre trenta operai muovevano le macchine per fare lo scavo; poi cominciarono a costruire con materiale prefabbricato, che sistemavano man mano che arrivava. Siamo riusciti a vedere un po’ di operai quando si è trattato di mettere l’erba, i cuscini sulle scalinate, e di dare il colore: e chi erano? Degli operai portoghesi che venivano pagati al prezzo a cui sarebbero stati pagati in Portogallo. Quindi la nostra ipotesi era totalmente fallita, perché la tecnologia aveva completamente superato ogni speranza che i lavoratori che arrivavano a costruire questa grande macchina potessero insediarsi nel territorio, e sostenere il partito comunista. Però la nostra esperienza è stata molto importante, perché abbiamo avuto la possibilità di conoscere la meccanica digitalizzata, di entrare nell’industria della comunicazione e in tutti i primi progetti che erano nati lì: era pieno di startup, che non si chiamavano ancora così, ma era in realtà tutta gente che tra gli anni ottanta e i novanta, quindi molto precocemente, lavorava su questo terreno; e inoltre abbiamo avuto questa esperienza della trasformazione dell’edilizia completamente meccanizzata, fatta dai grandi costruttori francesi. Quindi lì effettivamente quella che era la nostra grande illusione, la continuità politica dei movimenti, nelle nuove forze, è in buona parte saltata. Però è stato cruciale vedere questa nuova forza lavoro, la sua nuova composizione, che era sbalorditiva, e a quel punto su questo abbiamo cominciato a fare delle ipotesi.

Anche dalle sollecitazioni delle lotte francesi del ’86 nasce Fine secolo, un libro che rappresenta un passo in avanti rispetto alla teorizzazione degli anni settanta dell’operaio sociale…

Il 1986 è stato un momento estremamente importante, che ha fatto cadere un governo, che ha aperto la scuola ad una notevole agitazione interna, e un momento importante anche per il discorso della meticizzazione, del touche pas à mon pote: a parte il movimento formidabile del 2005, è stato forse l’unico grande momento in cui la banlieue è stata in qualche modo coinvolta nelle lotte. E l’86 è stato il momento in cui per la prima volta abbiamo cominciato a fare un’ipotesi che modificava la tesi dell’operaio sociale, perché iniziava, in combinazione con le trasformazioni tecnologiche, ad aggiungere la cognitivizzazione del lavoro, il fatto che il lavoro diventava lavoro cognitivo, lavoro completamente legato al digitale e alla possibilità appunto di progetti a grande risparmio di lavoro diretto e però a grande produttività: quindi una concezione del lavoro in quanto sociale, cognitivo, e altamente produttivo in termini di cooperazione. Era possibile vedere tra gli studenti, tra il lavoro intellettuale, che cresceva nella società, una base sociale di massa per un progetto politico? Ci sono state in Francia delle grandi ipotesi di lotta che inseguivano più o meno questo tipo di… io non direi né illusione né realtà: questo tipo di forma immaginativa, che è estremamente importante, perché il sociale, il sociale della lotta di classe, è sempre fatto così, è fatto di qualche cosa che è in mezzo tra la realtà e la speranza, e che quando può essere assunto dal punto di vista della soggettività diventa una forte immaginazione costruttiva, costituente. Le cose che avevamo intuito già negli anni settanta, la modificazione profonda della classe operaia, che avevamo anticipato probabilmente con troppo entusiasmo, le ho poi ritrovate tali e quali, ma quando erano ormai massificate e avevano assunto la forza di una tendenza inarrestabile, in Francia. E’ stato molto importante, da un lato perché è sempre bello scoprire delle cose nuove, d’altra parte perché mi ha aiutato ad andare avanti nei discorsi, anche nei discorsi politici.

In un intervento recente, intitolato Per un’Europa senza guerra, sollevi la questione di una indispensabile critica alla sovrapposizione della Nato al progetto europeo, e anche quella della necessità, per la costruzione dell’unione dell’Europa, di una apertura in direzione euroasiatica, tema quest’ultimo decisamente in controtendenza rispetto ai discorsi che vanno per la maggiore sulla Russia.

Basta guardare il mappamondo: e ci si accorge subito che l’Europa è una penisola di questo grande corpo che si chiama Asia. L’Europa ha una storia propria, è chiaro, ha una sua profonda civiltà, c’è poco da dire, e se poi questa civiltà si è sporcata col capitalismo, e indubbiamente è condannabile in molti aspetti, penso però che malgrado tutto gli attacchi all’eurocentrismo devono fermarsi ad un certo punto. In questo senso l’Europa è inevitabile, per dirla in questi termini, anche quando la si odia. Detto questo, se pensiamo che i prossimi anni saranno percorsi dalla crisi ecologica, dalla crisi del neoliberalismo, in particolare per quanto riguarda le politiche energetiche, siamo costretti in qualche modo a riconoscere che siamo una penisola dell’Asia, in termini energetici e non solo, anche come mercati. A questo punto dobbiamo evidentemente porci il problema di una posizione che valorizzi la profonda capacità delle popolazioni lavorative europee di mantenere la loro autonomia, la loro capacità di resistenza e di produzione, ma anche un rapporto con l’Est, che non è semplicemente l’Est russo, ma è anche cinese, cioè l’estremo Est. Io penso che questa posizione debba svilupparsi, e che questa presa di coscienza sia una delle condizioni dell’unità europea. Io sono profondamente europeista, lo sono sempre stato e mi mantengo tale, ma penso che effettivamente l’Europa va reimpiantata, e non va reimpiantata semplicemente modificando il trattato di Dublino o quello di Schengen, o quello di Lisbona o quello di Nizza: l’Europa va reimpiantata in quanto capacità democratica di costruire un proprio spazio e di giovarsi della crisi attuale del neoliberalismo, per costruire degli ordini di maggiore libertà e di maggiore eguaglianza. C’è il problema della Nato: la Nato è uno dei più pesanti ostacoli a qualsiasi possibilità di rinnovamento dell’Europa. Gli americani non hanno mai voluto l’Europa unita: l’Europa unita è, in quanto tale, una potenza alternativa agli Stati Uniti. L’Europa però è stata completamente assorbita nel mondo atlantico dopo la seconda guerra mondiale, che è stata vinta dagli americani e dai sovietici e però c’è stata questa divisione del mondo che stiamo ancora scontando in termini assolutamente pesanti, per quanto riguarda l’Europa. L’Europa non si unirà se al modello Europa sovrapponiamo continuamente il modello Nato. Il modello Nato è un modello di guerra, è un modello completamente subordinato agli interessi diretti americani, e dobbiamo quindi in qualche modo sganciare il problema dell’Europa dal problema della sua difesa e della sua organizzazione militare. Si tratta di un tema centrale anche perché permette di assumere il problema Europa fuori da quelle posizioni secondo me sbagliate che vogliono dissolvere l’Europa esaltando di nuovo i poteri sovrani nazionali, che vogliono uscire dall’euro senza porsi il problema delle nostre possibilità di sopravvivenza economica, in una situazione che è tutt’altro che facile e che ci vedrebbe immediatamente attaccati dai mercati mondiali. Quella della Nato è un tema che credo sarà cruciale nella nostra discussione dei prossimi anni.

Toni Negri

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    Marcello Lorrai
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