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La sublime radicalità di Cecil Taylor

“Penso alla musica in termini di possessione e di trance”: è un’affermazione di Cecil Taylor, in una lontana intervista con una rivista americana, in cui si può cercare la chiave dell’arte del pianista afroamericano, mancato il 5 aprile, pochi giorni dopo avere compiuto ottantanove anni.

Figura di rilievo assoluto, da annoverare fra le personalità più importanti non solo del jazz ma di tutta la musica del secondo novecento, Taylor è stato uno dei due protagonisti decisivi per la nascita, nella seconda metà degli anni cinquanta, del free jazz – l’altro è stato Ornette Coleman: ma l’estetica e la pratica musicale di Taylor – che solo negli ultimi anni si era sostanzialmente ritirato dalle scene – hanno mantenuto una formidabile contemporaneità, che è andata molto al di là della stagione del free.

Da diversi punti di vista il contributo di Taylor ha pochi paragoni: pianista sublime, Taylor è stato di gran lunga il più importante protagonista del suo strumento di tutto il jazz successivo al bebop; musicista-intellettuale di lucidità straordinaria, ha affermato la sua arte fra mille difficoltà, portandola avanti per decenni senza nessunissimo compromesso e concessione, con assoluta integrità artistica e una totale, aristocratica autonomia; le sue performance dal vivo, tanto in solo che con i suoi gruppi, si sono distinte per un’intensità e un magnetismo che non temevano confronti; la sua musica è stato un esempio più unico che raro di risoluta dedizione all’informale; una musica che probabilmente ha rappresentato il caso di più radicale dispiegamento in ambito contemporaneo di una logica non-occidentale, di più prepotente riemersione del fondo di provenienza africana del jazz.

https://www.youtube.com/watch?v=cP5L8tjnB6w

Nato a Long Island il 25 marzo 1929, in una famiglia di piccola borghesia nera (entrambi i genitori avevano, per parte materna, ascendenze nativo-americane), Cecil Percival Taylor comincia ad applicarsi al pianoforte a cinque anni spinto dalla madre, donna colta che suona violino e pianoforte, parla francese e tedesco e come il marito si interessa di teatro. Ad impartirgli le prime lezioni di pianoforte classico è la moglie di un timpanista della NBC Symphony Orchestra che qualche tempo dopo comincia ad introdurre Cecil nel mondo delle percussioni. I genitori sono in buoni rapporti con la famiglia di Sonny Greer, a lungo batterista di Ellington, e a sei-sette anni Cecil, affascinato dai grandi batteristi dello swing, in particolare da Chick Webb, si cimenta ad emularli pestando su pentole e padelle. Da bambino ha occasione di vedere in azione le orchestre di Jimmy Lunceford, Benny Goodman, Tommy Dorsey, Artie Shaw, Glenn Miller. Come pianisti lo colpiscono i più inclini ad un approccio percussivo alla tastiera, i maestri del boogie-woogie. La scoperta di un’altra forma d’arte, quella del virtuosismo nella coordinazione dei movimenti del corpo e dei piedi, schiude a Taylor ulteriori orizzonti: le esibizioni dei grandi ballerini neri, come i Four Step Brothers e Baby Laurence, scatenano in lui una divorante passione destinata poi ad estendersi al balletto classico e alla danza contemporanea. Durante il liceo vince un concorso radiofonico e viene ingaggiato da un bandleader locale; ma la prima esperienza professionale si conclude bruscamente con la sua prima esperienza di discriminazione razziale nel campo della musica come attività lavorativa: la band viene ingaggiata da un hotel, ma il proprietario non apprezza che fra i musicisti figuri anche un nero, e Taylor viene scaricato. Terminate le superiori Taylor segue corsi di composizione e armonia al New York College of Music, e entra poi al New England Conservatory di Boston, dove per quattro anni familiarizza con l’opera dei più importanti compositori europei del novecento, soprattutto Bartok e Stravinskij. Ma a Boston Taylor comincia anche a frequentare i locali dove si suona jazz, ed entra in contatto con alcuni dei migliori musicisti della città: Gigi Gryce, Jackie Byard, Charlie Mariano, Serge Chaloff, Sam Rivers. Fino a questo momento Taylor si pensa come un accompagnatore, ma Andrew McGhee, un sassofonista che ha lavorato con Lionel Hampton, lo spinge ad avventurarsi nell’improvvisazione in solo. Nei primi anni cinquanta Taylor è alla ricerca di una propria strada stilistica, e gli esempi pianistici di cui tiene via via presente la lezione finiscono per formare una piccola folla: fino ad un certo momento è rilevante l’influenza di Lennie Tristano, che poi cede spazio a Bud Powell; di Erroll Garner gli piace fra l’altro il senso del suono, di Dave Brubeck, di cui è in grado di cogliere i riferimenti ai compositori europei del Novecento, la densità armonica, ma non manca di apprezzare anche Art Tatum e Fats Waller, mentre si afferma come cruciale l’esempio di Horace Silver, che rimarrà uno dei suoi musicisti prediletti; all’elenco vanno naturalmente aggiunti Thelonious Monk, e, imprescindibile, Ellington, da cui ricava il senso di un approccio orchestrale allo strumento. Un ingaggio in una formazione guidata da Johnny Hodges, straordinario solista ellingtoniano, assume per lui un valore epocale. Dal ’52-53 Taylor comincia a guidare gruppi propri, con cui tenta di forzare la normale struttura dei brani e di trovare una via d’uscita dai modelli ritmici consolidati. Nel ’56 incide il suo primo disco, Jazz Advance, in trio, con Buell Neidlinger al contrabbasso e Dennis Charles alla batteria, a cui in due brani si aggiunge Steve Lacy al sax soprano. Se il lavoro della ritmica è ortodosso, Taylor illumina le forme convenzionali dei brani introducendovi momenti atonali che sono l’embrione di successivi, più radicali sviluppi.

Ecco da Jazz Advance Taylor in un brano di Ellington, Azure.

https://www.youtube.com/watch?v=GWxvRLN1S4Y

Nel corso di un ingaggio di diverse settimane in un bar newyorkese, il Five Spot, la novità della musica di Taylor attira nel locale un nuovo pubblico: personaggi del giro del jazz, intellettuali, artisti, fra cui spiccano pittori d’avanguardia come De Kooning e Kline, e lo scrittore Norman Mailer.

In quartetto con Lacy, Taylor comincia ad applicare, ricollegandosi volutamente a modalità in uso nel jazz delle origini di New Orleans, un criterio di organizzazione dell’improvvisazione di gruppo basato sull’apprendimento a orecchio della musica da interpretare, in modo da ottenere un maggior coinvolgimento dei partner. Con questa esaltazione dell’emotività e dell’estemporaneità, Taylor cerca un nuovo metodo, alternativo a quello del riferimento ad una composizione scritta, che diventerà una cifra distintiva della sua musica.

L’arditezza della musica proposta da Taylor, che alla metà degli anni cinquanta (quando Ornette Coleman deve ancora fare la sua irruzione sulla scena) non ha praticamente paragone, crea tuttavia seri problemi di lavoro al pianista. Molti club sono per lui off limits: “dopo circa otto misure del piano di Cecil”, racconterà Neidlinger rievocando uno dei tanti episodi capitati a Taylor, “il proprietario è corso su e gli ha detto di andarsene fuori. Non ha nemmeno voluto lasciarci finire un pezzo”.

Del ’58 è un nuovo album dal titolo programmatico, Looking Ahead !: le forme continuano ad essere ampiamente leggibili, ma con il suo tocco deciso, percussivo, e il procedere sghembo delle sue note, Taylor le affronta con una spregiudicatezza che lo colloca decisamente oltre le regole fino a quel momento accettate, e lo pone nella prospettiva di una interazione senza vincoli fra i musicisti del gruppo.

Ecco uno dei brani del disco, Of What.

https://www.youtube.com/watch?v=4WkoRh9p2rc&list=PLAzHladAmkCTHhXqJWbD9bBL9Fe3jy2Gb&index=3

Isolato dal milieu tradizionale del jazz, nel quale non riuscirà veramente ad integrarsi, Taylor patisce anche la mancanza di sintonia del pubblico nero con la sua musica, con la conseguente emarginazione dai locali frequentati dalla comunità. A lungo Taylor per sopravvivere deve affiancare alla musica i mestieri più umili: fattorino, commesso, sguattero. Non è poi difficile immaginare che nell’arduo rapporto del pianista con un ambiente abbondantemente machista come quello dei musicisti di jazz abbia avuto un peso non indifferente anche la sua omosessualità. Se Taylor è stato capace di rimanere tanto tenacemente attaccato alla propria individualità artistica è probabilmente anche perché temprato dalla durezza della scelta che ha dovuto operare decidendo che cosa aveva intenzione di essere.

Il nuovo decennio si apre discograficamente nel ’60 con The World of Cecil Taylor, con in due brani al sax tenore Archie Shepp, al suo battesimo del fuoco in sala di registrazione: l’approccio emotivo alla materia musicale prende sempre più il sopravvento sulle forme tramandate dal passato, e una ballad come This Nearly Was Mine ne esce destrutturata e trasfigurata.

https://www.youtube.com/watch?v=oHkrV06oueA

Nello stesso periodo con il suo gruppo il pianista è anche chiamato a rimpiazzare il complesso di Freddie Redd nell’allestimento del Living Theatre della pièce The Connection di Jack Gelber, che fa scalpore e diventa un successo del teatro off-Broadway: ma la musica di Taylor riesce ad irritare non solo Gelber ma anche Judith Malina, e a mettere a dura prova l’anarchismo del Living.

In incisioni del ’61 compaiono nuovi partner, il sax alto Jimmy Lyons, che fino alla morte nell’86 sarà uno dei più fedeli compagni di Taylor, e il batterista Sunny Murray. E’ con loro che a cavallo fra ’62 e ’63 Taylor tiene banco per quasi due mesi al Cafe Montmartre di Copenhagen, all’epoca un approdo sicuro per i musicisti free americani, e trova così in Europa uno sbocco al suo desiderio di lavoro continuativo di gruppo davanti ad un pubblico. Una situazione favorevole che consente a Taylor di dispiegare apertamente le premesse degli anni precedenti. Nelle registrazioni effettuate in questa occasione la musica del trio si dipana in torrenti sonori di sapore espressionistico in cui gli strumenti appaiono, salvo che in qualche scampolo tematico, largamente emancipati dai ruoli e dalle gerarchie tradizionali. Non priva di momenti di inquietudine, ma anche di profondo lirismo, l’improvvisazione di Taylor è animata da un vitalismo addirittura positivo e felice, che irradia di luminosità il magma musicale.

https://www.youtube.com/watch?v=nf1K9qAXEAs

L’andamento narrativo caro alla musica occidentale è superato in una sospensione della dimensione temporale: se narrazione c’è, è quella di un flusso coscienziale che idealmente non ha un principio e una fine. La poetica di Taylor implica anche il superamento della scissione fra mente e corpo, la possibilità che il dato emozionale, tenuto a freno nella cultura occidentale, possa sprigionarsi liberamente entrando a pieno titolo nell’atto musicale. Dopo la positiva parentesi danese, Taylor ripiomba nella difficoltà di trovare spazio senza scendere a compromessi. Il pianista attraversa anni di estrema rarefazione della sua attività live e delle uscite discografiche. Due album incisi nel ’66 per la Blue Note lo riportano discograficamente alla ribalta, Unit Structures e Conquistador!. Se a Copenhagen gli spunti tematici tendevano a diradarsi fino quasi a scomparire tra i flutti del free di Taylor, in Conquistador!, da annoverarsi fra i capolavori del free, sono invece proprio dei punti di raccordo di perentoria incisività o di sottile lirismo a scandire la musica assicurandole un respiro poetico che in alcuni momenti diventa struggente slancio epico, e illuminando per contrasto le convulsioni dell’improvvisazione libera.

https://www.youtube.com/watch?v=e_VthdlXvp0

Nell’autunno del ’68, in solo, Taylor si presenta per la prima volta in Italia, al festival del jazz di Bologna. Un anno dopo è a quello di Milano, questa volta con un quartetto, che si chiama significativamente Unit: le due esibizioni, come sempre accade con Taylor, non lasciano indifferenti i presenti, e dividono pubblico e critica. Nell’estate del ’69 lo Unit è intanto passato da Saint-Paul-de-Vence, in Francia: l’esibizione del gruppo si traduce in ben tre album, intitolati Nuits de la Fondation Maeght, che costituiscono uno dei vertici toccati dal free.

Nei primi anni settanta Taylor si dedica prevalentemente all’insegnamento. Riemerge nel ’73 con alcuni concerti giapponesi. Fa epoca un concerto in solo del ’74 al festival svizzero di Montreux, documentato dall’album Silent Tongues, nel quale a molti pare di intravvedere un ripensamento in atto nella poetica di Taylor, nel senso del superamento dell’approccio più torrido allo strumento, e favore di una maggiore riflessività, e di una significativa vena di lirismo.

https://www.youtube.com/watch?v=EsdkKnTB2vI

La seconda metà degli anni settanta è caratterizzata dalla tendenza all’estensione dell’organico dello Unit, che continua a rappresentare, rispetto alla direzione presa dai solo, il luogo di una più ribollente radicalità.

Intanto per molti della nuova generazione di ascoltatori che in Europa si sono avvicinati al jazz alla fine degli anni sessanta Cecil Taylor è ormai un mito. Anche chi non lo ama difficilmente non riconosce che il pianista appartiene ad una categoria a parte. A sancire la sua statura arrivano incontri discografici ai livelli più alti: nel ’76 con Friedrich Gulda e altri europei, poi i duo – tutti realizzatisi per desiderio dei suoi interlocutori – con l’anziana pianista Mary Lou Williams nel ’77, con il batterista Tony Williams nel ’78, con Max Roach nel ’79. All’inizio degli ottanta Taylor, invitato alla Casa Bianca, suona davanti a Jimmy Carter. Nell’84 di esibisce a Parigi con l’Art Ensemble of Chicago, e porta in tour in Europa, sotto la sigla Music FromTwo Continents, una formazione Vecchio-Nuovo Mondo. Nell’88, la berlinese Fmp, storico riferimento dell’improvvisazione radicale europea, allestisce un fitto cartellone di concerti, che vede impegnato Taylor sull’arco di addirittura un mese, e in cui il pianista dialoga con figure di punta della free music europea: l’iniziativa si traduce in un cofanetto di undici Cd, Cecil Taylor in Berlin ’88. Nei decenni successivo Taylor ha collaborato intensamente, in particolare in trio e duo, con il batterista britannico Tony Oxley, uno dei capiscuola dell’improvvisazione europea. Nel ’98 incide in trio col sassofonista Dewey Redman e col batterista Elvin Jones. Fra il 2000 e il 2003 si esibisce tre vole, a Ruvo di Puglia, Parigi e Sant’Anna Arresi, con l’Italian Instabile Orchestra. Fra i musicisti che sono riusciti e coronare il sogno di suonare con lui (Taylor non ha disdegnato di suonare anche con illustri sconosciuti, e ha d’altro canto scartato musicisti di fama) c’è Thurstone Moore, il chitarrista del gruppo noise rock Sonic Youth.

Taylor ha fatto musica al più alto livello – nei suoi sublimi soli, o in duo spesso con Oxley o con i suoi gruppi – fin nel nuovo millennio. Nel 2007 ha tenuto formidabili concerti a Bologna, Modena e Reggio Emilia. Nel 2009 l’ultimo concerto italiano, in solo al Teatro Morlacchi di Perugia per Umbria Jazz.

Il solo al Morlacchi era stato – neanche dirlo – bellissimo, ma per la prima volta in un concerto di Taylor mi era sembrato di leggervi qualche sentore di fragilità: e andandolo poi a salutare nel camerino, Taylor – che fino a quel momento, in scena e fuori, e pur anziano, era sempre stato per me l’emblema dell’energia – mi era apparso, per la prima volta, più fragile. Le sue esibizioni, e le sue apparizioni europee, si sono poi fatte rare. Nel 2013 bucò all’ultimo momento per ragioni di salute due concerti in programma a Sant’Anna Arresi e a Willisau. I medici gli sconsigliarono poi di prendere aerei. Nel 2016 si era esibito al Whitney Museum nell’ambito di un vasto omaggio che l’istituzione newyorkese gli aveva dedicato.

Cecil Taylor ci mancherà: ci è già mancata, in questi anni in cui non abbiamo più avuto occasione di ascoltarlo dal vivo, l’emozione unica che i suoi concerti sapevano dare. Ma ci mancherà non solo per la sua musica. Mancherà, a chi come me ha avuto il privilegio di frequentarlo in occasione di tanti indimenticabili concerti, da Berlino a Pescara, da Ruvo a Sant’Anna Arresi, da Bergamo a Parigi, anche il Cecil Taylor implacabile parlatore, fluviale non meno della sua musica, capace di tenere banco – lucidissimo, ironico, tagliente, affettuoso nei ricordi di certi protagonisti che aveva conosciuto o visto in scena, per esempio Billie Holiday, e spesso invece gustosamente perfido parlando di tanti altri – per ore e ore, fra una sigaretta e un calice di champagne, passando da Jimmy Lunceford, visto da bambino, ai ponti di Calatrava, da quel “nice guy” di Tito Puente conosciuto al Birdland alla filosofia di Derrida, dalla politica di Bush alla danza di Mikhail Barishnikov.

Ci mancherà persino il suo carattere non facile, con i suoi atteggiamenti da primadonna e l’estrema durezza di cui era a volte capace: ma un carattere unico, forte e vero come la sua musica. Con Cecil Taylor se ne va una delle grandi personalità, in senso non solo musicale, che hanno fatto la densità anche umana della storia del jazz.

  • Autore articolo
    Marcello Lorrai
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