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Ancora troppe disparità uomo-donna

Proprio oggi, 8 marzo, possiamo provare a farci un’idea di quali siano le sfide a livello mondiale per “ridurre” le disuguaglianze fra uomini e donne e favorire pari opportunità.

Possiamo provare almeno a considerare il divario attuale utilizzando un indicatore elaborato dal World Economic Forum sulla base di quattro dimensioni cruciali: salute, istruzione, partecipazione economica e politica, poi messe insieme a comporre un indice che va dalla massima alla minima iniquità. Da questo valore si può valutare quanto manca alla riduzione a zero del divario.

Esteri ha intervistato Patrizia Farina, docente di demografia dei Paesi poveri, Dipartimento di sociologia e ricerca sociale, all’Università Bicocca di Milano.

Che immagine ne esce?

Nel 2017 il progresso per colmare il gap si è fermato al 68 per cento, quindi vuol dire che rimane ancora un 32 per cento da raggiungere. Va detto però che le quattro dimensioni che abbiamo indicato partecipano diversamente alla composizione del divario generale.

Se vogliamo dare qualche buona notizia in queste sciagurate settimane possiamo riconoscere che nel campo della salute il gap è praticamente colmato (ricordo che è una comparazione fra uomini e donne non una valutazione della salute di un Paese) grazie all’indicatore della vita media. Anche l’istruzione è vicino al 100 per cento grazie all’accelerazione data dagli otto obiettivi del millennio. Di tutt’altra natura è invece il gap economico (ridotto al solo 58%) e politico (23%).

Questa lettura restituisce una immagine mista della condizione delle donne che diventa ancora più eterogenea se guardiamo alle regioni e ai Paesi. Per esempio 82 Paesi dei 144 rilevati hanno migliorato il loro punteggio rispetto all’anno precedente scalando posizioni; 60 invece l’hanno visto decrescere (tra questi l’Italia, all’82° posto per effetto della mancata partecipazione economica). In questo senso possiamo formulare un giudizio positivo perché un certo numero di Paesi e regioni hanno attraversato quella linea simbolica rappresentata dall’80 per cento di cammino. Giusto per completare l’informazione la parte alta della graduatoria è occupata dai Paesi nordici europei con l’Islanda che per l’ottava volta è prima. Fra le prime dieci nazioni ce ne sono anche alcune che appartengono ai cosiddetti Paesi poveri: per esempio il Ruanda perché questo indice non misura lo sviluppo economico di un Paese ma la distanza tra uomini e donne in ciascuna di queste dimensioni quindi se in Ruanda ci sono il 62 per cento di donne parlamentari è chiaro che questo specifico dominio porta verso l’alto il punteggio del Paese.

La partecipazione politica?

Solo il 22 per cento delle parlamentari al mondo nel 2016 erano donne, un incremento davvero modesto se si pensa che nel 1995, quindi vent’anni, prima, era già l’11 per cento. La proporzione più alta è nei Paesi nordici europei (41%) in coda invece ci sono gli Stati arabi e l’area del Pacifico (16%).

In 38 nazioni la presenza parlamentare femminile è inferiore al 10 per cento, in quattro non ci sono. A gennaio 2017 solo il 18 per cento dei ministeri erano presieduti da donne, peraltro comunemente incaricate in posizioni meno potenti come quelli dell’Ambiente, dei Servizi sociali, dell’Istruzione e della Famiglia.

Volendo guardare al bicchiere mezzo pieno possiamo dire che in via spontanea, o indotto dall’’imposizione delle quote, lo spazio di partecipazione politica delle donne nel mondo si è allargato: un gran numero Paesi ha raggiunto il 30 per cento o l’ha superato. Dobbiamo salutare questo dato in termini davvero positivi e di sviluppo di pari opportunità anche per le generazioni future perché molte evidenze empiriche hanno mostrato che la leadership politica femminile migliora la condizione delle donne nella società. Anche agendo in contesti molto conflittuali le donne in politica sono state attive non meno degli uomini, e soprattutto hanno affrontato nel modo migliore temi più specifici come quello della violenza, dell’uguaglianza giuridica, delle pari opportunità nel lavoro.

L’altra importante dimensione riguarda il lavoro che tiene molto bassa la dimensione economica.

Le donne partecipano al mercato del lavoro molto meno degli uomini: nel complesso le prime sono il 47 per cento, i secondi intorno al 72 per cento. Le donne sono più facilmente lavoratrici salariate o lavoratrici non retribuite in famiglia, sono più ingaggiate in attività a bassa produttività e nei lavori informali con meno mobilità potenziale e comunque meno organizzate sindacalmente. Anche per queste ragioni le donne sono pagate meno degli uomini fra il 60-75 per cento del salario maschile, a parità di lavoro. Le donne sono anche lavoratrici “lasciate” all’agricoltura informale: capita in Asia del sud (80%) in Africa subsahariana (74%) e la metà in America Latina (50%). Le donne sono le principali responsabili del lavoro di cura non retribuito. Se combiniamo lavoro retribuito e non retribuito le donne nei Paesi poveri lavorano molto più degli uomini e dedicano meno tempo all’istruzione, al tempo libero, alla partecipazione politica e ad altre attività personali. Va detto anche che le legislazioni condizionano l’accesso al lavoro delle donne: una ricerca Onu ha rivelato ad esempio  che in 79 Paesi su 144 indagati ci sono leggi che restringono il tipo di lavoro che le donne possono fare, e in 15 Paesi il coniuge può opporsi al lavoro della propria moglie.

Cosa sta facendo l’Onu?

Rimane ancora molto da fare e le agenzie internazionali stanno lavorando lungo la strada indicata dagli obiettivi di sviluppo sostenibile e adottando spesso un approccio discutibile ma probabilmente più vincente. Intendo dire che ogni documento prodotto dalle Nazioni Unite dalle istituzioni governative insiste sul vantaggio sociale dell’equità di genere. Per esempio, l’istruzione femminile riduce la mortalità dei bambini, una maggiore istruzione rende più efficiente una società. Le società si arricchiscono con il lavoro femminile e tanto altro ancora. Considero questo un approccio pericoloso: l’equità è strumentale, è ancorata allo sviluppo sociale piuttosto che ai diritti delle donne. Personalmente credo però che se questo serve a migliorare le condizioni delle donne del mondo e soprattutto del mondo povero possiamo condividerlo, ma con la massima cautela.

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