Iniziative

 

 

Dalla fine della Storia alle grandi migrazioni

Ultimo incontro del ciclo “Dalla Guerra Fredda alla Globalizzazione: 40 anni di politica estera raccontati da Icei e Radio Popolare”. Lunedì 4 dicembre alle 21, nell’auditorium di via Ollearo 5, l’ottavo appuntamento: “Mondo globalizzato, mondo in movimento”. Intervengono i relatori Silvia Maraone e Alfredo Somoza, modera Rosaria De Paoli.

***

Il 9 novembre del 1989 è passato alla storia come il giorno della fine della Guerra Fredda. Il crollo del Muro di Berlino sanciva per molti la definitiva sconfitta dei regimi europei che avevano adottato il socialismo di Stato. Qualcuno negli Stati Uniti profetizzava addirittura la “fine della Storia”, considerando la sconfitta dell’Unione Sovietica come l’affermazione definitiva dell’economia di mercato in tutto il mondo. La realtà si è dimostrata leggermente diversa, anche se la profezia sull’economia di mercato come modello unico si è avverata. E l’evento che davvero ha segnato l’inizio di una nuova tappa dell’umanità è stato il trionfo della globalizzazione, un fenomeno nato più o meno quattro secoli prima, ma che dopo la fine del blocco sovietico non ha più trovato impedimenti.

La ragnatela di accordi regionali e di aree di libero scambio come l’Unione Europea, il Nafta, il Mercosur, l’APEC (Asia-Pacific Economic Cooperation) e soprattutto gli accordi quadro del WTO hanno abbattuto frontiere, dazi, sovvenzioni e creato un mercato globale. Solo per le merci, però. Perché, mentre la globalizzazione creava posti di lavoro per milioni di persone nei Paesi dove le imprese occidentali delocalizzavano, si costruivano muri per ostacolare la gente in fuga dai Paesi esclusi dalla crescita economica (e da quelli scossi dai conflitti che nel frattempo si sono moltiplicati, in mancanza di una governance globale). Muri che nascevano non più per dividere due mondi ideologicamente diversi, ma per tenere separate le aree del benessere da quelle della sofferenza.

La globalizzazione ha contribuito a rimescolare le carte a livello internazionale, dando gambe e respiro a Paesi prima relegati ai margini e oggi assurti al ruolo di potenze mondiali, come Cina e India. Anche per questo oggi l’equilibrio del potere è complesso e frammentato, a differenza di quanto accadeva ai tempi della Guerra Fredda. Non esiste una potenza mondiale in grado di “tenere in ordine” il pianeta. Gli Stati Uniti, che si erano autocandidati a farlo, hanno fallito miseramente in Medio Oriente e sono in difficoltà in Asia. In questi ultimi anni abbiamo addirittura assistito a un’inversione di ruoli nel gioco dell’economia mondiale: le potenze che avevano dato il via alla globalizzazione ripiegano su loro stesse, per primi gli Stati Uniti di Trump, mentre i Paesi un tempo autarchici, come la Cina, stanno diventando alfieri della liberalizzazione degli scambi mondiali.

Nei Paesi di vecchia industrializzazione, infatti, la globalizzazione non è riuscita a onorare le promesse: le zone che hanno perso le industrie migrate all’estero difficilmente sono riuscite a trovare un nuovo profilo produttivo, e spesso si sono trasformate in deserti sociali. Il tema della diseguaglianza, che era stato dimenticato per decenni, è così tornato d’attualità. In questi anni, soprattutto per i ceti medi, si è ridotta la differenza di reddito tra Paesi occidentali e potenze emergenti. In Asia centinaia di milioni di cittadini sono usciti dalla miseria, ma in Occidente, dal 1980 a oggi, la distribuzione del reddito è divenuta meno equa.

Durante il Novecento, i rapporti tra gli Stati trovavano una sintesi tutto sommato efficace in espressioni come “centro e periferia”, “primo, secondo e terzo mondo”, “nord e sud”, che dividevano il pianeta in grandi regioni. Oggi, invece, si dovrebbero immaginare nuove definizioni trasversali, che rendano conto dei diversi livelli di integrazione o di esclusione rispetto al mercato globale (con tutte le conseguenze che ne derivano) al di là dei confini nazionali. Un’efficace “suddivisione” del mondo dovrebbe tener conto anche dei nuovi ceti sociali, garantiti e precari; e di un modello di consumo mondiale determinato non dai gusti dei consumatori ma dall’offerta delle grandi multinazionali, ormai quasi monopoliste. È un mondo insomma apolitico, nel quale i cittadini chiamati a votare (almeno dove questo accade, e cioè in sempre meno Paesi) decidono poco. Le grandi scelte passano da altri tavoli rispetto a quelli della politica tradizionale. Un mondo nel quale la stessa democrazia è un optional.

Le migrazioni umane, antiche di secoli, hanno ancora un ruolo importante. I migranti forniscono la manodopera necessaria perché la ruota continui a girare nei Paesi dove il saldo demografico è tracollato, e con i loro risparmi finanziano i Paesi più poveri. Quello del migrante moderno è però un ruolo ingrato, non riconosciuto e anzi osteggiato. Nessuno lo considera per quello che è: un elemento insostituibile dell’economia mondiale e il garante del benessere tanto della società di accoglienza quanto di quella di origine. In pratica sono loro, i migranti, gli eroi della globalizzazione, come lo furono nei secoli passati tanti europei, cinesi e, in catene, milioni di africani.

Il mondo che ci aspetta è poco prevedibile. La lunga cavalcata dell’economia di mercato liberista, che per decenni ha improntato l’azione degli organismi internazionali e regionali, sta rallentando. Le paure si traducono in voti sempre più consistenti contro il sistema, in un ritorno ai nazionalismi e alle chiusure. Si teorizza che il ritorno al controllo delle frontiere, lo sbarramento ai migranti e alle merci possano essere la chiave per risolvere crisi sociali ed economiche. Tutte cose già sentite, e che in Europa hanno portato a un paio di guerre devastanti.

Un dato è certo, quarant’anni fa il mondo era assetato di libertà e lo si sognava aperto, mentre oggi quella stessa apertura, in assenza di un governo mondiale, fa paura: dalla paura della guerra nucleare si è passati a quella della perdita del posto di lavoro. Ciò che oggi manca, a differenza del passato, è una visione, un’idea forte sul mondo che verrà. Che possa ridare protagonismo ai cittadini, rilanciare la democrazia, ridurre le diseguaglianze e soprattutto dare un nuovo equilibrio a un mondo ancora in difficoltà.

  • Autore articolo
    Alfredo Somoza
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    Violenza stradale, numeri un po' in calo. Il rimedio: l’educazione e diminuire la velocità

    L’Istat ha pubblicato i report sugli scontri stradali, su base regionale (relativi al 2024) e anche alcuni dati sui primi sei mesi di quest’anno. Ci sono meno feriti e meno vittime sulle strade, anche se i numeri restano ancora drammaticamente elevati. Secondo l’Istituto di Statistica nel primo semestre del 2025 i morti sono stati 1310 (si parla di morti per scontri stradali se il decesso avviene entro 30 giorni dall’evento, quindi sono escluse le persone che muoiono, nonostante la causa siano le conseguenze dello scontro, oltre quel limite temporale) contro i 1406 dello stesso periodo dell’anno precedente. I feriti sono stati 111090, anche in questo caso in calo rispetto al 2024, quando erano stati 112428. Gli obiettivi europei sulla sicurezza stradale prevedono il dimezzamento del numero di vittime e feriti gravi entro il 2030 rispetto all’anno di riferimento, che è il 2019. In Italia al momento registriamo una diminuzione del 4,5% (in Lombardia del 12,6). Bisogna ancora fare molto per riuscire a raggiungere l’obiettivo. Uno degli aspetti fondamentali, oltre la diminuzione della velocità, è l’incremento dell’educazione stradale. Stefano Guarnieri, padre di Lorenzo, morto nel 2010 a causa di un omicidio stradale a Firenze ha fondato l’associazione Lorenzo Guarnieri, che da anni si impegna a portare avanti un discorso di educazione. Alessandro Braga lo ha intervistato nella trasmissione Tutto Scorre.

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