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Clima, la guerra sbagliata di Trump

All’interno dell’amministrazione Trump si sta discutendo della futura politica ambientale degli Stati Uniti. Nel governo americano ci sono posizioni contrastanti. In campagna elettorale il presidente aveva detto più volte che avrebbe ritirato il Paese dall’accordo sul clima di Parigi.

In questi giorni a Bonn, in Germania, sono riuniti tutti i Paesi che nel 2015 firmarono proprio l’accordo di Parigi, con l’obiettivo d’implementare quell’intesa. La possibile uscita americana, ovviamente, sta influenzando il dibattito.

La Cina, in una curiosa inversione di ruoli, ha confermato che invece il suo obiettivo è proprio la difesa dell’accordo di Parigi.

Ma cosa potrebbe significare una decisione così drastica da parte degli Stati Uniti? Ne abbiamo parlato con Gianni Silvestrini, direttore del Kyoto Club e autore del libro 2 °C

“Ci sarebbero sicuramente dei contraccolpi negativi. Per esempio, è prevista una cifra che i Paesi sviluppati – quindi gli Stati Uniti in testa – devono mettere per aiutare i Paesi in via di sviluppo, sia nelle politiche di mitigazione sia nelle politiche di adattamento ai cambiamenti climatici. Chiaramente con la posizione di Trump questo contributo non ci sarà. Ci può essere anche un riflesso a livello internazionale sui Paesi più tiepidi – e penso soprattutto alla Russia – che ancora non hanno ratificato.
A livello interno, già ci sono delle politiche che contrastano quelle adottate da Obama e che depotenziano la spinta verso la decarbonizzazione. Quindi, da questo punto di vista, il fatto che gli Stati Uniti decidano di uscire formalmente dall’Accordo sul clima non cambierebbe di molto le cose. Anche perché l’uscita formale non potrebbe avvenire prima della fine del 2020, quindi avrebbe rilevanza più che altro sul piano psicologico.
Va anche detto però che la posizione di Trump in realtà rafforza i suoi oppositori. Uscire dagli accordi per gli Stati Uniti sarebbe molto controproducente a livello d’immagine internazionale, cosa che viene sottolineata costantemente dai gruppi industriali ma anche all’interno della stessa amministrazione. Al suo interno c’è una profonda frattura che ogni giorno che passa rende evidente la pochezza di una scelta di questo tipo. Sostanzialmente, un Trump che va alla guerra al clima rischia di scatenare un movimento di opposizione molto vasto nell’opinione pubblica americana, come quello che c’era ai tempi della guerra in Vietnam, quando gli Stati Uniti si impegnarono nella guerra sbagliata”.

Dal punto di vista globale, invece, come sarebbe la lotta ai cambiamenti climatici senza gli Stati Uniti?

“La cosa curiosa è che proprio in questi giorni a Bonn abbiamo assistito a un’inversione di ruoli, con la Cina che ha chiesto conto ai delegati americani – tra l’altro una delegazione molto piccola, sette persone, l’Algeria ne ha il doppio – di quali siano i loro programmi per la riduzione delle emissioni, e gli americani che si sono trincerati dietro la  frase: ‘Li stiamo rivedendo, non li abbiamo ancora definiti’. Una posizione difensiva molto molto debole. Evidentemente questa situazione, nel momento in cui venisse compiuto l’atto di rottura sugli Accordi sul clima, renderebbe la posizione degli Stati Uniti molto più delicata anche in consessi come il G7 e il G20, come è stato fatto notare in questi giorni a Bonn”.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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    Diesel Euro 5, il blitz della lega contro il blocco che sarebbe scattato a fine anno: rimandato al 2026, riguarderà solo le grandi città

    La Lega ha ottenuto il rinvio dell’entrata in vigore del blocco alle auto diesel euro 5. Con un emedamento al decreto infrastrutture è stata rimandata di un anno l’entrata in vigore del provvedimento, che era stato approvato dal governo in recepimento di una direttiva europea. Il blocco agi diesel più inquinanti scatterà a questo punto solo alla fine del 2026: e non riguarderà tutte le città oltre i 30mila abitanti ma sarà applicato solo alle grandi città di oltre 100mila. La Lega e Salvini in queste ore rivendicano questo come “un atto di buonsenso”. Una lettura diversa e opposta a quella che danno in queste ore le associazioni ambientaliste e molti osservatori. Ester Marchetti, direttrice del settore trasporto pulito di Transport and environment.

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    Per i lavoratori dei musei civici di Milano prima vittoria: 300 euro in più al mese e maggiori tutele

    I lavoratori e le lavoratrici dei musei civici milanesi hanno vinto la loro battaglia: ora saranno assunti con il contratto nazionale Federculture e non più quello Multiservizi. Significa, ad esempio, 300 euro al mese in più in busta paga e migliori tutele. I primi a beneficiare del cambio di contratto, dopo scioperi e proteste, saranno i lavoratori e le lavoratrici delle biglietterie. “Dopo due anni di lotta serrata all’interno dei Musei Civici di Milano arrivano le certezze sull’applicazione del CCNL Federculture nel primo appalto che va in scadenza, ovvero le biglietterie” spiega il sindacato USB Lavoro Privato che ha seguito la vertenza. “Dopo l’uscita del bando non solo con l’indicazione del Federculture, ma con anche tutte le altre garanzie fondamentali che abbiamo rivendicato con scioperi e in tutti gli incontri avuti con i consiglieri e con gli Assessori alla Cultura e al Bilancio, è stata data comunicazione ai lavoratori che quanto scritto nel bando troverà corrispondenza nel cambio appalto di settembre”. L’obbiettivo di sindacato e lavoratori è ora quello di cambiare il contratto in tutti gli altri bandi in scadenza, a partire da quello degli operatori di sala che scadrà a maggio 2026. Roberto Maggioni ha intervistato Elena Lott di USB Lavoro Privato.

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