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Clima e rifugiati: paghino i ricchi

I paesi più ricchi hanno inquinato di più e quindi paghino di più. Il concetto è semplice, eppure non riesce a passare. Infatti, tra le conclusioni possibili della conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici (Cop21), in corso a Parigi, questa non sembra essere la più probabile.

A Memos ne abbiamo parlato con Pia Saraceno, economista, docente di Economia dell’Energia e Gestione dei beni ambientali all’Università Cattolica di Milano e presidente del centro di ricerca Ref-E. «L’onere dell’adattamento e della mitigazione – sostiene Saraceno – deve stare sulle spalle dei paesi più ricchi, altrimenti i paesi in via di sviluppo non affronteranno il problema del cambiamento climatico. Vediamo già la posizione dell’India o dello Zimbabwe che accusano i paesi sviluppati di aver prima rovinato il mondo e adesso pretendere che chi consuma poco sopporti i costi di un diverso modello di sviluppo».

Pia Saraceno
Pia Saraceno

L’economista dell’Università Cattolica spiega come arriva a questa conclusione. «Affrontare il tema del cambiamento climatico – sostiene Pia Saraceno – significa far sì che le temperature non crescano più di una certa soglia: si è posta l’asticella ai due gradi centigradi, ma ormai la traiettoria su cui ci troviamo indica che siamo su una soglia superiore ai due gradi, entro la fine di questo secolo. Affrontare il tema del cambiamento climatico significa anche dare ai paesi in via di sviluppo, che aumenteranno la domanda di energia, una doppia possibilità: da un lato affrontare scelte di uso dell’energia più compatibili con l’ambiente rispetto a quelle che noi paesi sviluppati abbiamo fatto nel nostro processo di sviluppo; dall’altro far sì che i paesi – quelli più poveri – possano affrontare le conseguenze del cambiamento climatico, conseguenze che stanno subendo maggiormente rispetto ai paesi ricchi».

Secondo l’economista Pia Saraceno per dare ai paesi in via di sviluppo questa doppia possibilità è necessario che siano i paesi più ricchi a pagare di più per i danni prodotti dal cambiamento climatico. Non solo: Saraceno sostiene che i paesi ricchi debbano sostenere l’onere maggiore perché quegli stessi paesi «hanno generato una maggiore concentrazione di gas serra in atmosfera. Il punto critico – aggiunge Saraceno – della conferenza di Parigi è proprio qui, e cioè quanto sono credibili le promesse dei paesi sviluppati nel far sì che molte risorse siano riorientate in due direzioni: per mitigare gli effetti negativi dei cambiamenti climatici su quei paesi che consumano poco e subiscono molti danni; e per cambiare le tecnologie che altrimenti i paesi poveri riterrebbero più convenienti da utilizzare».

Valerio Calzolaio
Valerio Calzolaio

Nella puntata di oggi di Memos è intervenuto anche Valerio Calzolaio, giornalista e scrittore, sottosegretario al ministero dell’ambiente nei governi di centrosinistra dal 1996 al 2001, anni in cui ha partecipato ai negoziati per il Protocollo di Kyoto. Calzolaio ha parlato dei “rifugiati climatici”, le persone costrette a scappare dai propri paesi a causa dei cambiamenti climatici prodotti dalle attività umane in altri paesi. «La novità di questi tempi, rispetto ad emergenze climatiche del passato – racconta Calzolaio – è che gli eventi climatici estremi di oggi (dalle inondazioni alla siccità) sono stati prodotti da noi, paesi industrializzati, con comportamenti che sono geograficamente distanti rispetto al luogo in cui quegli eventi si manifestano costringendo a migrazioni forzate». Calzolaio racconta che i rifugiati climatici non hanno ricevuto un riconoscimento ufficiale da parte delle istituzioni internazionali. Ricorda però che un organismo internazionale come l’ Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), premio Nobel per la pace nel 2007, «ha riconosciuto una connessione stretta tra le migrazioni forzate e i cambiamenti climatici. Così come il Papa che è stato tra i primi ad accorgersene: al paragrafo 25 della sua ultima enciclica Bergoglio usa termini scientifici corretti e afferma che “purtroppo non c’è riconoscimento ufficiale dei migranti forzati dai cambiamenti climatici”, dei rifugiati climatici».

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  • Autore articolo
    Raffaele Liguori
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    Nel giorno mondiale contro la violenza sulle donne, raccontiamo con Cristina Carelli, presidente di D.i.Re Donne in Rete contro la violenza, i centri antiviolenza, oltre 110 in Italia con differenze però tra Nord e Sud, con quasi 4mila operatrici in stragrande maggioranza volontarie e quasi 30mila donne “ascoltate” all’anno. “Siamo realtà aperte e sempre presenti, le donne arrivano da noi spesso senza appuntamento e si rivolgono a noi quasi sempre liberamente - spiega Carelli - perché il presupposto del nostro intervento è la libertà di scelta della donna, lo sottolineiamo perché è in corso un tentativo di trasformarci in realtà di servizio e per imporre alle donne dei percorsi standardizzati, più istituzionali e di sistema, e non costruiti per ciascuna partendo dal consenso e dalla libera scelta di ogni donna”. Sottofinanziamento, soluzioni solo punitive, negazione della dimensione politica e culturale della prevenzione, la frontiera è sempre la società. Se sono le famiglie a decidere cosa è giusto o meno per l’educazione sessuale, stiamo riproponendo il problema. “Chiediamo al governo di essere coerente: bisogna lavorare sul fronte della cultura e della prevenzione”. La violenza non è solo un atto individuale, ma è resa possibile da scelte politiche e culturali che limitano la libertà delle donne, scrive Di.Re nella campagna “Tutto nella norma” che potete trovare sul sito: direcontrolaviolenza.it

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    Pubblica si occupa di violenza maschile contro le donne. Oggi è il 25 novembre, giornata internazionale dell’ONU per l’eliminazione della violenza di genere. Con la presidente di UN (United Nations) Women Italy, Darya Majidi. E con Barbara Leda Kenny, antropologa, coordinatrice della Fondazione Brodolini, curatrice del sito Ingenere.it

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