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Stati Uniti, la protesta invade i campus

Ha finito di parlare e ha dovuto trattenere le lacrime. “Dobbiamo smettere di intimidirci, di insultarci, di urlarci contro. Offro le mie dimissioni come modo per iniziare una conversazione”.

Tim Wolfe, presidente della University of Missouri – conosciuta familiarmente come Mizzou – si è dimesso. Insieme a lui se ne va il chief executive R Bowen Loftin. Travolti entrambi – Wolfe e Loftin – dal disagio e dall’inquietudine razziale che ha sconvolto molte università americane.

La University of Missouri è un’università statale con base a Columbia, una college town a ovest del fiume Mississippi: 135 mila abitanti di cui 35 mila studenti. Una minoranza di questi, solo il 7 per cento, è nera. Per il resto, l’università raccoglie i figli della borghesia bianca e progressista di Kansas City e St. Louis, ma anche quelli dei villaggi rurali e conservatori di questo spicchio di Sud.

Ferguson si trova a circa due ore a est di Columbia. Ferguson è il sobborgo di St. Louis dove, il 9 agosto 2014, venne ucciso Michael Brown, il 18enne disarmato freddato da un poliziotto bianco, Darren Wilson. Molti, da Columbia, guidarono fino a Ferguson, per partecipare alle proteste. Mizzou, come altri posti d’America, venne travolta dal senso di indignazione e di rabbia.

Le autorità dell’università hanno però fatto poco o niente per discutere quello che è successo a Ferguson; o almeno questa è stata la sensazione di molti studenti. Columbia è d’altra parte un posto dove il passato continua a contare. Quando l’università fu fondata, nel 1839, il Missouri era uno Stato schiavista. Il Campidoglio è stato costruito dagli schiavi e l’università usava il lavoro degli schiavi.

Il silenzio dell’università su Ferguson ha fatto ancora più male. Come male hanno fatto altri episodi recenti. Lo scorso settembre a Payton Head, presidente degli studenti universitari e afro-americano, hanno urlato degli insulti razzisti da una macchina: la tristemente celebre n-word. Stessa cosa è successa a un altro gruppo di studenti neri, in ottobre. Stavano provando all’aperto un pezzo di teatro, l’insulto è arrivato da uno studente bianco. E una svastica, disegnata con le feci, è comparsa nei bagni dei dormitori dell’università.

La University of Missouri, in questo, non è sola. Il rinnovato attivismo del movimento afro-americano, dopo Ferguson e in parallelo ad altri episodi di razzismo e violenza di cui sono stati vittime i neri, ha provocato una reazione contraria in molte università americane. Dei cappi, pendenti da statue o alberi, sono stati trovati negli spazi di Duke University e della University of Mississippi. In diversi campus sono stati celebrati dei parties “con la faccia dipinta di nero”. Perfino a Yale, baluardo della nobile ed educata Ivy League, è stata disegnata sul pavimento una svastica.

Quello che però ha fatto precipitare la situazione, alla University of Missouri, è stato il silenzio della facoltà, il rifiuto ostinato di incontrare gli studenti che protestavano, di aprire una discussione su passato e presente dell’università. In un’occasione durante una parata universitaria, il presidente Wolfe ha rifiutato di scendere dall’auto su cui viaggiava per parlare con gli studenti. Niente hanno potuto le veglie, organizzate la sera, nel freddo, sui prati del compus. E niente ha potuto lo sciopero della fame organizzato da uno studente nero, Justin Butler, che ha denunciato “il clima sempre meno sicuro, per gli studenti neri, nel campus”.

A risultare decisiva è stata invece la decisione dei Tigers, la squadra di football che gioca in uno stadio di 76 mila persone. Sempre esaurito. Stufi del silenzio dell’università, preoccupati per la salute di Butler, sempre più debole, sempre più vicino al collasso fisico, i giocatori neri dei Tigers hanno deciso di non entrare più in campo sino a quando Tim Wolfe, il presidente, non si fosse dimesso. “L’ingiustizia in un certo posto è una minaccia alla giustizia ovunque”, hanno scritto. I dubbi sono durati poche ore. Wolfe poteva reggere tutto, ma non lo sciopero di una squadra che ogni domenica va sulle televisioni di tutta la nazione. Lunedì, dopo qualche ora di riflessione, ha detto che se ne va. “La rabbia e la frustrazione che vedo in giro sono reali – ha detto – e la responsabilità è mia”.

In molti festeggiano la sua uscita di scena. Butler ora dice che gli studenti dovranno avere voce in capitolo, nella scelta del prossimo presidente. Ma l’addio di Wolfe fa poco per cambiare davvero la situazione. In un commento all’articolo del giornale universitario che ha seguito tutta la storia, c’è scritto: “Se non siete contenti di stare alla University of Missouri, potete andarvene. Questa storia del razzismo sta diventando vecchia e noiosa”.

  • Autore articolo
    Roberto Festa
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    Nel cinquantenario della morte di Šostakovič il Teatro alla Scala inaugura la Stagione con il suo capolavoro Una lady Macbeth del distretto di Mcensk, tratto dal racconto di Nikolaj Leskov in cui una giovane sposa con la complicità dell’amante uccide il marito e il tirannico suocero, ma viene scoperta e finisce per suicidarsi in Siberia, tradita da tutti. Dopo il debutto a San Pietroburgo, l’opera, che avrebbe dovuto essere il primo capitolo di una trilogia sulla condizione della donna in Russia, ebbe enorme successo in patria e all’estero. Stalin assistette a una rappresentazione a Mosca nel 1936; due giorni dopo apparve sulla Pravda la celebre stroncatura dal titolo “Caos invece di musica” con cui il regime metteva all’indice l’opera e il compositore. Anni dopo Šostakovič preparò una nuova versione che andò in scena a Mosca nel 1963 con il titolo Katarina Izmajlova, dopo che il sovrintendente Ghiringhelli aveva invano cercato di ottenerne la prima per la Scala. Oggi il Teatro presenta la versione del 1934 con la direzione del M° Chailly e il debutto del regista Vasily Barkhatov. Ascolta Riccardo Chailly nella presentazione dell’opera.

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