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Appunti sulla mondialità

Il diritto internazionale strattonato

Vent’anni fa il mondo assisteva all’inizio della guerra in Iraq: una guerra avviata sulla base di una nuova linea in materia di diritto internazionale elaborata dalla Casa Bianca, all’epoca governata da George W. Bush. Si chiamava “legittima difesa preventiva”. Estranea alla Carta delle Nazioni Unite, era stata utilizzata per la prima volta dagli Stati Uniti nel 2001, per invadere l’Afghanistan, e ufficializzata nel 2002 con l’inserimento nella National Security Strategy presentata da Bush al Parlamento di Washington. Era una dottrina figlia degli attentati dell’11 settembre, utilizzata a caldo contro l’Afghanistan accusato di dare rifugio  a Osama bin Laden, leader della rete terroristica sunnita Al Qaed. Secondo l’intelligence americana, da lì bin Laden avrebbe potuto organizzare attentati contro strutture e cittadini degli Stati Uniti. In realtà, bin Laden sarebbe stato individuato e ucciso solo nel 2011, non in Afghanistan bensì in Pakistan, alleato di ferro degli Stati Uniti.

La preparazione dell’intervento militare contro l’Iraq, invece, si basava sull’ipotesi che Saddam Hussein, il dittatore di Bagdad, fosse in possesso di armi di distruzione di massa. Fu la prima volta in cui uno Stato democratico divulgò e usò ufficialmente una “fake news”, costruita a tavolino, per indirizzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale. Il 5 febbraio 2003, l’allora segretario di Stato americano Colin Powell si presentò all’ONU con una fialetta piena di polvere bianca: era antrace, a suo dire, e costituiva la prova dell’esistenza dell’arsenale chimico dell’Iraq. Ma, dopo anni di guerra, in Iraq l’antrace non fu mai trovato. lo stesso Powell nel 2005 definì quel discorso all’ONU una macchia per la sua carriera.

Intanto, però, il principio della “legittima difesa preventiva” si era affermato, superando quanto recita sullo stesso tema il 51° articolo della Carta dell’ONU. Tornando indietro nel tempo, soltanto l’intervento del 1990 per liberare il Kuwait dall’invasione irachena fu compiuto rispettando tutti i crismi del diritto internazionale: riuscì, infatti, a ottenere il via libera dell’ONU grazie all’astensione dell’URSS nel Consiglio di Sicurezza. Per il resto, con il diritto di veto in mano a cinque potenze schierate su fronti diversi, nei casi di violazioni della Carta dell’ONU è stato impossibile arrivare a interventi concordati e condivisi. Perciò la dottrina della legittima difesa preventiva è diventata una scorciatoia interessante. Non soltanto è stata usata dagli Stati Uniti, ma è condivisa da Australia e Regno Unito, e anche da Israele. L’ultima convertita alla dottrina-Bush è stata la Russia di Vladimir Putin, che ha giustificato l’invasione dell’Ucraina in base all’ipotesi che il Paese confinante potesse diventare una base operativa della NATO, mettendo così in pericolo la sicurezza russa.

Oggi, al momento di iniziare un dialogo tra le parti in guerra, è questo il grande intoppo: come conciliare il diritto dell’Ucraina di riavere i territori occupati, sancito dalla Carta dell’ONU, e il diritto della Russia a garantirsi che da quella frontiera non arrivino pericoli in futuro, rivendicato sulla base della “legittima difesa preventiva”. Un rebus di difficile risoluzione. Per garantire la pace nel mondo, invece, le prime mosse dovrebbero essere la riforma del Consiglio di Sicurezza dell’ONU e la riscrittura delle regole: perché, se siamo arrivati a questo punto, è anche grazie all’uso disinvolto del diritto à la carte da parte dalle potenze globali.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Le rane bollite

Da mesi a Milano va in scena uno spettacolo da Corte dei Diritti dell’Uomo: richiedenti asilo e protezione umanitaria accampati nei week end sperando d’essere ricevuti all’ufficio immigrazione il lunedì, unico giorno d’apertura. Fuori dai 120 fortunati (non c’è posto per gli altri: di solito tra i 600 e 1000) si torna: di settimana in settimana. Se monta la rabbia e si preme sulle transenne interviene la polizia. I profughi son ombre. La città agisce inconsciamente ciò che Meloni s’attende dagli oppositori: espiino per quel che non han fatto quand’erano al governo. Ha detto al Senato d’aver «la coscienza tranquilla» [beata lei!] e s’è chiesta, irridendo a sinistra, se altri «che speculano sulle vittime l’hanno». Sensi di colpa devon esserci se invece di ribattere con foto di via Cagni (Niguarda, non via Montebello: milanesi col coeur in man; vedere è altra cosa) a Roma e a Strasburgo la Milano che votò Schlein con Sala ha detto che parlerà al Prefetto e ha inviato delegazioni ai migranti. Meloni ventriloqua (muove le labbra, Salvini mette parole) che predica regolarizzazioni ma le ostacola è partita serena per Bruxelles: Europa e Atlantismo dormono sonni tranquilli con lei al Governo e il 70 per cento dell’informazione Rai a sostegno (e non ha ancora toccato i vertici!): nessuno protesta; in tanti abbozzano e lei va pure alla CGIL! Noam Chomsky linguista, teorico dei media ha presentato come apologo un esperimento: una rana zompa fuori se buttata in acqua a 50°; ma se la metti in acqua fredda e accendi il gas la rana s’adatta all’acqua che si fa tiepida; quando poi la temperatura sale e vorrebbe uscire non riesce: non ha più energie, è bollita. Chomsky, quasi 95 anni, ne ha viste tante, come Edgar Morin, anni 101, che in Di guerra in guerra (Cortina) esprime il timore che l’uomo non abbia compreso la capacità di autodistruggersi pur sperimentata nel 1940-45. Dai Grandi Vecchi la morale della storia. A noi capire quando chi governa ha acceso il fuoco e reagire o preferire il comfort momentaneo dell’acqua calda e finire bolliti come rane.

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Tra Buddha e Jimi Hendrix

Nipsey Hussle, la strana morte del rapper che sembrava un po’ Tupac, un po’ Kendrick Lamar

Un po’ Tupac, un po’ Kendrick Lamar, un piede nelle gang, un altro nei servizi sociali per aiutare i giovani a istruirsi e tenersi lontani dalle spire della delinquenza; e poi soldi, soldi soldi. Tanti soldi, come nella tradizione dei migliori rapper. Ma anche testi impegnati e una sana e lucida ispirazione nel raccontare il ghetto di Los Angeles e le sue leggi.
Viste le premesse e ascoltatone con attenzione il flow, credo non sia esagerato affermare che al momento della sua morte Ermias Joseph Asghedon, per tutti Nipsey Hussle, fosse la next big thing del rap west coast, diretto discendente della scuola di Ice T, Eazy E, Pac, Snoop e compagnia. A pochi giorni dal quarto anniversario del suo tragico omicidio, credo sia quindi doveroso ricordarlo. Il testo che state per leggere è tratto dal mio libro “Rap Criminale – Tupac, Biggie e gli altri martiri del gangsta rap” e ringrazio il Castello Editore per averne autorizzato la pubblicazione su queste pagine.
Nato il 15 agosto del 1985 a Los Angeles da mamma afro-americana e papà immigrato eritreo, Nipsey cresce in una zona della città degli angeli che definire difficile è un eufemismo. Parliamo di South L.A., quartiere di Crenshaw, dove finire in una gang è il minimo che ti possa capitare se sei un ragazzo. E difatti ci entra anche Ermias, che a quattordici anni è già un membro dei 60’s Rollins, banda affiliata ai famigerati Crips.
L’ingresso nella gang lo porta a pesanti scontri in famiglia e ad abbandonare la Hamilton High School prima di raggiungere il diploma.
Per fortuna Dawit Asghedon è un buon padre. Ce la mette tutta per far sì che i suoi tre figli – oltre a Ermias ha anche un maschio e una femmina – righino dritto e imparino cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Di certo non sopporta che uno dei suoi ragazzi si perda in strada fra risse e attività criminali collegate alle gang. E allora non senza sacrifici riesce a comprare i biglietti aerei per portare i suoi due figli maschi a visitare l’Eritrea in modo che capiscano da dove provengono e cosa sia la sofferenza vera. È il 2004, e quel viaggio alla riscoperta delle proprie origini, a contatto con il leale ma povero popolo eritreo, sono una fonte d’ispirazione importante per Ermias, che decide di diventare un attivista per le persone disagiate della comunità in cui è cresciuto. E pure un imprenditore di successo perché, questo lo capisce subito, senza i soldi mica lo puoi cambiare il mondo.
Ok, l’obbiettivo c’è. Ma come raggiungerlo? Con il rap, ovviamente. Anche perché il ragazzo ha un flow mostruoso, un’innata capacità di scrittura e un’immagine che spacca.
Ermias Joseph Asghedon si ribattezza Nipsey Hussle – in onore del celebre attore afroamericano Nipsey Russell – e inizia a registrare pezzi e buttare fuori mixtape. Uno dietro l’altro, come si faceva negli anni Novanta. Il pubblico alza le orecchie, e così i rapper più affermati che iniziano a salutare con curiosità e interesse questo tipo alto e magro, con la barba lunga e le tute da ginnastica sgargianti. Il resto lo fa lui, che ha un fiuto negli affari degno di uno dei Rotschild, e si sa vendere davvero bene.
Infatti firma con la Epic ma ben presto li scarica perché vuol gestire lui il business sulla sua musica. E lo fa alla grande. Uno dei suoi mixtape, “Creenshaw”, decide di venderlo in tiratura limitata: 1000 pezzi a mille dollari l’uno. Utilizzando i social in maniera intelligente e creando hype intorno alla sua figura, ben presto l’obbiettivo è raggiunto: Jay Z, per dire, ne compra ben 100 copie, versandogli sull’unghia 10mila dollari.
Arrivano le collaborazioni importanti, da Drake a Snoop Dogg fino a Kendrick Lamar. Poi la nascita di una propria etichetta, la All Money Inn, perché come funziona il business della musica Nipsey l’ha già bello che capito.
Nel 2006 FDT, un suo pezzo contro Donald Trump, allora in corsa per la Casa Bianca, diventa virale con oltre 26 milioni di visualizzazioni su you tube.
Quando il 16 febbraio del 2018 esce “Victory Lap”, suo primo album ufficiale, è un successo annunciato, che debutta alla posizione numero 4 nella Billboard 200 e riceve una nomination ai Grammy come miglior disco rap. Ma per Nipsey non c’è solo la musica, la sua attività imprenditoriale comprende l’etichetta discografica, una linea d’abbigliamento e l’apertura del Marthon Clothing Store, un negozio molto cool nel quartiere di Hyde Park.
“Sono un artista indipendente che non ha firmato con nessuna etichetta e alza 25.000 dollari a spettacolo” dice senza nascondere l’orgoglio. “Sto girando il mondo, senza fare nulla contro la legge, guadagnandomi onestamente i soldi per sfamare la mia famiglia. E ho dipendenti che hanno reati e non troverebbero altro impiego che lavorano per me…”.
E già che c’è, Nipsey trova anche il tempo per fare due figlie: una con l’attrice Lauren London, ex di Lil Wayne e l’altra da una precedente relazione.
Com’è che si dice? Live fast die young, giusto?
E poi c’è l’impegno da attivista, che da quel viaggio in Eritrea non l’ha mai abbandonato.
Hussle vuole, parole sue, “dare soluzioni e ispirazione” ai giovani neri come lui. E così eccolo andare nelle scuole a parlare con gli studenti delle sue esperienze con la cultura delle gang e denunciando la violenza nelle strade.
E nelle tante iniziative in cui è coinvolto investe del suo, finanziando direttamente alcune scuole del quartiere e dando vita a Vector 90, uno posto dove i ragazzi possono beneficiare di spazi di lavoro comuni e prendere lezioni gratuite di scienze, tecnologia e matematica.
Il primo aprile del 2019 – d’accordo con Steve Soboroff, un commissario di polizia di Los Angeles – viene addirittura organizzato un incontro fra lui e gli agenti di Polizia della zona per iniziare una collaborazione finalizzata a limitare l’attività dei giovani nelle gang.
Niente male per questo figlio del ghetto.
Purtroppo quell’incontro non si terrà mai, perché Nipsey Hussle muore il giorno prima.
Sono le 15 e 30 di domenica 31 marzo quando viene colpito da tre colpi d’arma da fuoco appena esce dal suo negozio di Hyde Park. A sparare è un afroamericano che immediatamente si dà alla fuga.
Nipsey muore sul colpo.
Il suo assassino viene preso poche ore dopo, si chiama Eric Holder.
Il motivo dell’omicidio? Questioni di gang. Ancora.
Pare che Holder abbia fatto delle soffiate alla Polizia su alcune attività dei Rollins 60’s e Hussle gli ne abbia chiesto conto. Tra i due è scoppiata una lite, sono volati insulti e Holder ha fatto fuoco.
Poche ore prima il rapper sul suo profilo twitter aveva scritto: “Avere nemici forti è una benedizione”.
Eric e Nipsey appartenevano alla stessa banda. Secondo le trascrizioni dell’udienza preliminare nel processo contro Holder, tra Eric e Nipsey avrebbe avuto luogo un’accesa conversazione pochi istanti prima del fatale sparo. Nipsey accusa Holder di essere una spia. La parola “spia” è menzionata 24 volte nella trascrizione.
Si sa, chiamare qualcuno “spia” è la cosa peggiore che puoi dire nel ghetto, si è pronti a uccidere per una simile offesa.
Il poliziotto in pensione Bryan Bentley, che ha trascorso tutta la sua carriera operando nel quartiere di Nipsey, non ha dubbi: “Ha mancato di rispetto a un a persona, che è la prima grande regola: non mancare di rispetto a qualcuno nel quartiere. Se lo fai, devi essere pronto a difenderti. Questa è la legge delle strade. Questa è la legge su come funzionano i membri delle gang”1.
Come abbiamo già detto, puoi togliere il ragazzo dal ghetto, difficilmente il ghetto dal ragazzo.
Un detto che ancora una volta si è rivelato tragicamente vero.
Ed è un vero peccato, perché Nipsey era davvero un tipo diverso, che si stava spendendo per essere davvero il cambiamento che voleva vedere nel suo quartiere.
Come ricorda Ben Zendt, autore del documentario “The Mysterious Murder of Nipsey Hussle”, il rapper si discostava dalla solita idea dell’artista in cerca di celebrità. Meno interessato ai follower su Instagram, più interessato a costruirsi un seguito nella vita reale, diventando la personificazione di ciò che predicava: “Non ha mai lasciato la sua comunità, ci ha investito per renderlo un posto migliore. Per questo era così amato”.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Mia cara Olympe

Gpa, famiglie arcobaleno: una discussione da maneggiare con cura

Ci sono parole da maneggiare con cura. Tutte le parole sono da maneggiare con cura, alcune, forse, con ancora maggiore prudenza per evitare funzionino da boomerang. Stiamo, da giorni, assistendo all’arrembaggio della destra di governo sul tema dei diritti dei bambini delle famiglie arcobaleno: un arrembaggio che strumentalmente ha mescolato la questione della tutela di questi bambini – necessaria, doverosa, civile – con la ben diversa querelle sulla gestazione per altri.
Fare di tutta l’erba un fascio, ‘mostrificare’ questa famiglie ritraendole come ‘sbagliate’ laddove l’unica famiglia consentita sarebbe quella tradizionalmente costituita da madre, padre e dai loro nati è il gioco così evidente della destra da consigliare, in questa battaglia, una prima cosa: non cadere nella trappola, tenere sgombro il campo, separare le questioni. Un conto infatti sono i diritti di quei bambini – ne hanno scritto Chiara Saraceno, Michele Ainis, Linda Laura Sabbadini, giusto per fare qualche nome tra quelli che hanno ben spiegato la discriminazione alla base di questo attacco e cosa significa il ‘preminente interesse del minore’, punto focale di diverse sentenze della corte costituzionale in materia – altro, e differente, è la questione della gestazione per altri.
Il dibattito cui stiamo assistendo invece è di non grande spessore, spesso con toni da crociata, e di enorme confusione tra i temi: il che, politicamente, indebolisce un fronte che sul tema della tutela potrebbe compattarsi e che, invece, è diviso sulla questione della gpa. A sinistra, nei femminismi, nel fronte che per brevità chiamiamo progressista. E lo è con ragioni che non vanno, a mio avviso e da una posizione contraria alla gpa, liquidate o immediatamente tacciate di omofobia, laddove il ricorso alla gpa riguarda al 70% coppie eterosessuali. Tra le parole che credo vadano maneggiate con cura in questo dibattito ci sono autodeterminazione e aborto. In alcuni commenti si è affacciata la comparazione tra gpa e aborto: concettualmente sbagliata – nell’un caso la donna decide su di sé e con limiti temporali indicati dalla legge, nel secondo su un altro da sé al momento della cessione ai committenti – e politicamente pericolosa com’è evidente in tanta parte di mondo che costantemente rimette in discussione il diritto delle donne ad un aborto legale e sicuro. Ed è proprio dal significato dell’autodeterminazione – che, attenzione, vale per tutti gli esseri umani, donne e uomini – che mi piacerebbe partisse una discussione seria sulla gpa che evidentemente non è frettolosamente liquidabile come pura espressione della volontà di chi la decide, siano essi i committenti o la donna portatrice. Non è una discussione facile: riguarda la libera scelta, il significato della gravidanza e del parto nell’esperienza umana, delle donne e dei nati, riguarda il mercato e i suoi contratti, il capitale che mette tutto a profitto e le diseguaglianze, il desiderio, il ruolo del maschile, e mi fermo perché l’elenco è complesso e sicuramente ho tralasciato qualcosa. È una discussione che, a sua volta, deve affrontare sia il piano concettuale sia quelli delle pratiche e delle legislazioni, sapendo che non sempre e non necessariamente le due posizioni possono coincidere. È una discussione da fare senza anatemi da entrambe le parti e usando le parole con cura, sviscerandone i significati, rileggendole nella loro storicità  e nella loro attualità. E tenendo ferme le conquiste delle donne, perché quelle stesse parole non abbiano l’effetto boomerang.
Intanto però, ed è questa la battaglia da fare insieme, ci sono quei bambini, molti sono già ragazze e ragazzi che crescono in famiglie omogenitoriali, chiedono diritti ed eguaglianza e non una vita condizionata e complicata da infinite burocrazie. E ne hanno, come tutti i bambini e i ragazzi, diritto.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

I fantasmi della Silicon Valley

Qualcosa sta scricchiolando dalle parti della Silicon Valley, e non soltanto a causa del crollo della Silicon Valley Bank, la sua banca principale. I segnali preoccupanti riguardano tutta la bolla speculativa che, negli ultimi vent’anni, ha portato ad attribuire alla produzione immateriale un prezzo esageratamente superiore rispetto al suo valore reale. Basti pensare al caso di Tesla, che è arrivata ad avere una capitalizzazione di borsa superiore a tutto il resto del settore mondiale dell’auto messo insieme. O di Amazon che, pur occupandosi semplicemente di logistica, è stata valutata come se fosse l’azienda del futuro. Quotazioni folli, che hanno portato i proprietari di queste aziende a diventare gli uomini più ricchi della terra. Ora il circuito autoreferenziale che ha alimentato la crescita delle startup californiane è in crisi: banche che finanziavano qualsiasi idea, fondi di investimento che realizzavano giganteschi affari puntando su startup promettenti per ricavare, dopo poco tempo, cento o mille volte la cifra investita. Tutto nel nome di creatività e innovazione, che c’erano sì, ma solo ogni tanto, perché non era questa la vera priorità.

Le app che avrebbero dovuto cambiarci la vita e rendere il mondo migliore si sono presto dimostrate per quello che realmente erano: fantastici veicoli di pubblicità mirata che non avrebbero cambiato nulla, e men che meno migliorato la nostra vita. La tribù dei promoter, degli influencer, dei guru della rete, profumatamente finanziati dalla rete stessa, è ormai in declino. Resta come dato permanente la dipendenza da smartphone, soprattutto negli adolescenti: addiction che ora ha anche un nome, “nomophobia”. Difficile capire se questa nuova realtà venga considerata una patologia o, piuttosto, un’opportunità di fare affari.

Come sempre accade quando le bolle si sgonfiano, i primi a restare per strada sono i lavoratori. Amazon, Twitter e Google nei primi mesi del 2023 hanno licenziato 50.000 persone, e con il fallimento della Silicon Valley Bank, forziere delle startup californiane, si preannunciano nuove ondate di licenziamenti. Per molti, questo è il momento per abolire i privilegi, unici nella storia del capitalismo, degli oligarchi della West Coast. Come l’immunità sui contenuti pubblicati sulle loro piattaforme, la deroga dalla legislazione sul lavoro per i loro “collaboratori”, l’indifferenza sui monopoli di fatto che hanno creato, l’accondiscendenza verso le forme legali di elusione fiscale messe in piedi a livello mondiale. Ma il vero capitale di questo mondo restano gli utenti, miliardi di persone in tutto il mondo. Sono stati loro a farli emergere, sempre loro hanno il potere di affondarli.

I social e le piattaforme di acquisto e di scambio di beni sono destinati a diventare meno importanti perché riemergeranno i settori fondamentali dell’economia tradizionale? Il fatto che, da qualche tempo, i magnati della Silicon Valley stiano acquistando enormi appezzamenti di terre coltivabili potrebbe essere un indizio. Di certo, l’entusiasmo che ha fatto lievitare il valore di questo mondo si è sgonfiato, ma è anche in grado di riprendere slancio, magari in nuove forme: ovviamente, solo se saremo noi a premiarlo.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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    con Anna Negri sul documentario “Toni mio padre”; Francesco Fei su “Piero Pelù rumore dentro”; Alessandro Genovesi e Valentina Lodovini regista e interprete di “Una famiglia sottosopra”; Lino Guanciale parla di “Il Commissario Ricciardi”. Estratto dall’incontro con Soahil Dahdal e Rehab Nazzal, vincitori del Nazra Palestine Short Film Festival, nell’auditorium di Radio Popolare (2). Tra le uscite: “Un semplice incidente” di Jafar Panahi; “Siamo in un film di Alberto Sordi?” di Steve Della Casa e Caterina Taricano; “Anemone” di Ronan Day-Lewis.

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    Terzo tempo – il settimanale di Esteri - 08-11-2025

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    M7 del 08/11/2025 - Roba da matti. La salute mentale nelle carceri lombarde

    Se ne parla solo quando c'è un suicidio, ma il tema della salute mentale negli istituti penitenziari va ben oltre i fatti di cronaca nera ed è un tema che investe chiunque abbia a che fare col carcere. Detenuti e detenute in primis, ma anche chi tra quelle mura ci lavora: educatori e educatrici, psicologi e psicologhe, agenti di polizia penitenziaria. Tra sovraffollamento, scarse condizioni igienico-sanitarie e politiche poco umane, si rischia di impazzire. Ne abbiamo parlato con il consigliere comunale di Milano Alessandro Giungi, il consigliere regionale lombardo Luca Paladini, il nuovo garante dei detenuti di Milano Luigi Pagano, col coordinatore del dipartimento di amministrazione penitenziaria della Fp-Cgil della Lombardia Andrea De Santo e con la coordinatrice di Antigone Lombardia Valeria Verdolini.

    M7 – il settimanale di Metroregione - 08-11-2025

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    Il demone del tardi di sabato 08/11/2025

    a cura di Gianmarco Bachi

    Il demone del tardi - 08-11-2025

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