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Tra Buddha e Jimi Hendrix

SINEAD O’ CONNOR – Vita Ribelle di una mistica punk-rock

Sono già quattro, accidenti, gli iconici artisti che ci hanno lasciato quest’estate, ma se i primi tre – Tina Turner, Jane Birkin e Tony Bennet – avevano un’età “importante”, la quarta, Sinéad O’Connor, era ancora relativamente giovane e, probabilmente, pure parecchio a credito con la vita. Se n’è andata all’improvviso, l’annuncio è stato dato ieri dalla tv irlandese, e per adesso non si sanno le cause della morte, anche se, analizzandone la travagliata vita, viene più di un sospetto.
Sinéad Marie Bernadette O’Connor, per il pubblico semplicemente Sinead, nasce l’8 dicembre 1966 nel sobborgo operaio di Glenageary, a Dublino, terza di cinque figli. Suo padre si chiama Sean e di mestiere fa l’ingegnere mentre sua madre, Marie, sta a casa a occuparsi dei ragazzi.
A 9 anni, a seguito della separazione dei genitori, viene affidata alla madre. Non è una scelta felice, la donna soffre di depressione e ha problemi con il bere, le frustrazioni di una vita disgraziata le scarica tutte sui figli. Quando il padre viene a conoscenza degli abusi, Sinead va a vivere da lui e dalla sua nuova compagna e inizia a frequentare diverse scuole cattoliche.
Ed è qui che nasce il suo complesso rapporto con la spiritualità e la fede, un rapporto fatto tanto di devozione e ricerca verso l’altrove, quanto di rabbia e ribellione contro le ingiustizie.
Espulsa diverse volte da scuola, alla ricerca di un proprio posto nel mondo, a quindici anni viene arrestata per taccheggio e rinchiusa per quasi diciotto mesi al Grianan, un centro per ragazzi difficili gestito dalle suore, con annesso centro per il trattamento dei disturbi mentali.
Un’esperienza terribile, che però ha il pregio di regalarle tanto tempo per suonare la sua amata chitarra e scrivere le prime canzoni. La musica, d’altronde, è un ottimo rimedio per sfogare la rabbia.
Durante un‘esibizione a un matrimonio viene notata da Paul Byrne, bassista della band irlandese degli In Tua Nua; Sinead sta cantando Evergreen di Barbra Streisand, e Byrne letteralmente impazzisce, prendendola con sé. La introduce subito nel giro che conta, pensa a lei come nuova cantante per il suo gruppo e insieme registrano il singolo Take My Hand. Ma lei è troppo giovane, ha appena quindici anni e il progetto sfuma.
Passa qualche anno ma non l’amore per la musica, Sinead studia piano e voce al Dublin College of Music e per mantenersi, recapita a domicilio telegrammi cantati. Grazie a un annuncio su Hot Press incontra Colm Farrelly, un giovane musicista con la passione per la world music. I due reclutano altri musicisti e mettono su i Ton Ton Macoute, un gruppo strano ma che da subito suscita parecchia curiosità grazie alle convincenti esibizioni dal vivo e all’ugola eccezionale della sua strana cantante. Nel giro la notano subito, ma se la accaparra Fachtna O’Ceallaigh, amico degli U2 ed ex CEO dell’etichetta Mother, che ne diventa il manager e come prima mossa la inserisce nella colonna sonora del film The Captive, curata proprio da The Edge.
E da qui parte tutto. Arriva il primo contratto discografico con i tipi della Ensign Record.
Poco dopo sua madre muore in un incidente d’auto. È una bella mazzata, Marie se ne va prima che la figlia le possa dirle tutto quello che sente. E un rapporto irrisolto con un genitore è l’anticamera a una vita di problemi.
Ma per ora c‘è la musica e Sinead si sente pronta per un album tutto suo, ci crede, lo vuole fortemente. Non si può dire lo stesso della Ensign che invece ritiene le sue tracce ancora troppo strane, non definibili in un genere, e quindi poco adatte al mercato.
Per niente intimorita, la O’Connor sbatte i pugni sul tavolo e convince quelli dell’etichetta: The Lion and the Cobra, titolo dal chiaro riferimenti al Salmo 91 della Bibbia, esce il 4 novembre del 1987.
Si tratta di un esordio fulminante, che porta il nome dell’artista dublinese sulla bocca di tutti. Sinéad ha 20 anni, capelli rasati, occhi dolcissimi, look and attitude post-punk e una voce da brividi. Le sue canzoni sono tanto rabbiose quanto tenere e pure, come sussurri che sanno graffiare.
I temi del disco spaziano dalla spiritualità all’amore, dalla denuncia sociale all’introspezione più onesta e dolorosa. Le sonorità che attraversano il lavoro sono altrettanto vaste: si va dal punk-rock alle delicate ballate, dal folk al pop, dal funk alla canzone tradizionale irlandese più qualche accenno di world music.
Il disco viene unanimemente considerato come uno dei più promettenti debutti dell’anno, ottiene presto l’oro e Sinead viene nominata al Grammy per la migliore performance vocale femminile.
Nell’anno della consacrazione, Sinead trova anche l’amore e si sposa con il suo produttore, l’ex batterista John Reynolds, con cui avrà un figlio, Jake. Ma la storia fra i due finisce nel 1990 e, quando esce I Do Not Want What I Haven’t Got, il disco della consacrazione, si sono già lasciati, anche se continueranno a collaborare insieme per parecchio.
I Do Not Want What I Haven’t Got è un successo spaventoso, soprattutto grazie a una delle canzoni più programmate di sempre: Nothing compares 2U, scritta dall’artista che allora si chiama ancora Prince.
Il genio l’aveva composta e affidata ai Family nel 1985, che la inclusero nel loro unico disco , rivelatosi un flop. La O’Connor, dopo cinque anni, spinta dal suo manager, reinterpreta a suo modo il brano, altrimenti destinato a rimanere sconosciuto alle grandi platee.
Oltre alla bellezza della canzone, forte di una melodia che cattura, colpisce il riuscito videclip, che ritrae Sinead sempre con i capelli rasati, ma in una versione più dolce e femminile, che piange calde lacrime d’amore dai suoi grandi occhi da cerbiatta. Affermare sia uno dei cinque pezzi più iconici degli anni Novanta non credo sia un’esagerazione.
La voce melodiosa e il viso d’angelo non traggano comunque in inganno, la O’Connor resta un’artista che definire non facile è un eufemismo.
Scostante, intrattabile, lunatica, occhi di cervo litiga più o meno con tutti. Si scaglia contro gli U2, che accusa di gestire in modo mafioso la scena dublinese, strizza l’occhio a quelli dell’Ira, sogna un’Irlanda unita e fuma vagonate di marijuana guardando con interesse ai rasta e alla reggae music.
Sinéad sa anche essere generosa. Dona alla Croce Rossa la sua casa da 750mila dollari sulle colline di Hollywood, partecipa a numerosi appuntamenti umanitari e destinerà al popolo curdo il ricavato del mini-cd My Special Child.
Eppure vivere controcorrente sembra la sua filosofia e il capo rasato, in stridente contrasto con la tenerezza dei suoi occhi e la delicatezza dei suoi lineamenti, né è la manifestazione più fedele. Si narra che tagliarsi i capelli a zero sia il suo primo gesto di protesta contro le ingerenze dell’industria discografica che la vorrebbero più rassicurante, perché quello musicale è, parole sue, il peggior business con cui si possa avere a che fare.
Successi musicali e comportamenti sempre più incendiari si alternano con regolarità quasi scientifica. Più dischi vende più Sinead diventa ingestibile.
Dapprima declina l’invito a prendere parte al Saturday Night Live insieme al comico Andrew “Dice” Clay perché quest’ultimo, a suo dire, è uno xenofobo e antifemminista; poi si rifiuta di aprire il concerto al Garden State Arts Center del New Jersey interpretando l’inno americano, come tradizione imporrebbe, facendo infuriare anche Frank Sinatra, il quale dichiara che l‘avrebbe volentieri presa a calci nel culo.
Quindi boicotta i Grammy Awards del 1991, sostenendo che Mtv andrebbe abolita, perché la tv uccide l’arte e la poesia.
Infine, quando dopo lunga trattativa, finalmente accetta di intervenire al Saturday Night Live, da vita al suo gesto più celebre. Vestita di bianco, alcune candele sullo sfondo, una stola con i colori rasta poggiata sul microfono, Sinead interpreta a cappella una personalissima versione di War di Bob Marley, che conclude stracciando in diretta una foto di papa Giovanni Paolo II all’urlo: “Combatti il vero nemico”.
Diplomatico come una bomba a mano, il gesto della O’Connor è pensato per protestare contro la politica repressiva attuata dalla Chiesa cattolica nel suo paese.
Scende un silenzio spettrale in studio, tutti a chiedersi se l’abbia fatto veramente. E la risposta è sì, l’ha fatto davvero.
Scoppia un caos di proporzioni bibliche, la notizia in breve tempo fa il giro del mondo, portandosi appresso una serie di inevitabili conseguenze.
Appena qualche settimana più tardi, l’artista di Nothing Compares 2U non riesce ad esibirsi al Bob Dylan Tribute perché una folla impazzita le urla ogni genere di insulto. Sinead risponde intonando nuovamente le prime strofe di War quindi abbandona il palco.
Scandalo e riprovazione internazionale si abbattono sulla cantante, che viene etichettata come un’eretica squilibrata.
Con quel gesto, l’artista irlandese si fotte la carriera.
Alcuni mesi dopo il fattaccio al Saturday Night, esce Am I Not Your Girl, una raccolta di classici tratti dal repertorio di grandi stelle della musica. Le interpretazioni dei brani sono notevoli ma il successo, questa volta, non arriva.
Si apre un periodo duro per la cantante, stroncata dalla critica, odiata da moltitudini di detrattori e in preda a una cupa depressione.
Le presta soccorso Peter Gabriel, che la vuole con sé nel cast del Womad Tour, carovana itinerante della world-music, ideata proprio dall’ex-leader dei Genesis.
Nel 1994 esce Universal Mother, un disco che vuole rappresentare sia la pace con la sua Irlanda sia una confessione a cuore aperto in cui Sinead buttta fuori tutta la merda che ha accumulato dentro da quando è nata: i demoni, gli psicodrammi familiari, individuali, sociali e politici.
Ma anche questo disco, pur pregevole nelle intenzioni, si rivela commercialmente un mezzo flop, bocciato sia dalla critica che dal pubblico.
Alla disperata ricerca di un po‘ di affetto, Sinead convoglia a seconde nozze con il giornalista John Waters. Stavolta arriva la femmina, Rosin.
Negli anni seguenti, la ribelle irlandese sembra mantenere un basso profilo, recitando a teatro e suonando in piccoli club, quasi a volersi rifare una verginità artistica lontana dagli squali dello showbiz.
Ma non sta per niente bene, soprattutto psicologicamente. Si dice tenti addirittura il suicidio.
Torna nel 1997, con un EP intitolato The Gospel Oak, un lavoro struggente, doloroso e pieno di fantasmi.
Non se ne accorge quasi nessuno e allora lei scompare di nuovo, per altri tre anni.
È il momento di una nuova trasformazione per la problematica ragazza dublinese, che per un periodo sembra abbandonare la musica per dedicarsi a trovare una via per assecondare quella spiritualità dilagante che sente dentro ma verso la quale non è ancora riuscita a trovare una quadra. E allora si fa suora! Nel 2000 viene ordinata sacerdotessa della chiesa cattolica Latin Tridentine, non riconosciuta dal Vaticano, con il nome di suor Bernadette-Marie. Ottiene comunque dalla sua chiesa una dispensa speciale che le permette di non essere casta, che si sa il sesso a volte aiuta.
Inevitabile la nuova esposizione mediatica e lo sconcerto internazionale.
Dopo avere finalmente risolto una serie di controversie legali legate alla separazione dal marito John Waters, che l’accusa di negligenza nei confronti della figlia piccola, Sinéad torna a incidere musica pubblicando nel giugno del 2000 l’album Faith And Courage, primo disco di inediti da oltre 6 anni.
Fra influenze reggae, musica tradizionale irlandese e folk, Sinead affronta temi complessi quali la spiritualità, la fede, la politica e pure la sua complessa sessualità. E la prima a non avere le idee chiare è proprio lei: “Sono stata a letto con donne, ma sono molto più attratta dagli uomini”, dichiara a “Hot Press”.
“Sono lesbica, anche se finora ho avuto molte difficoltà ad accettarlo” rivela poco dopo a Curve.
Non che ce ne freghi qualcosa, comunque.
Sinead nel frattempo sposa il giornalista Nicholas Sommerland, ma si separa dopo poco.
Nel 2002 è la volta di Sean-Nos Nua, disco di reinterpretazioni di vecchi brani folk irlandesi. Anche stavolta il successo è misero.
Nel 2003, presta la voce ai Massive Attack per il brano 100th Window. Nello stesso anno annuncia che, dopo la pubblicazione del nuovo disco She Who Dwells In The Secret Place Of The Most High Shall Abide Under The Sahadow Of The Almighty (raccolta di inediti, live e rarità), abbandonerà la carriera musicale.
Non è di parola e soltanto due anni più tardi torna a calcare nuovamente le scene. Prima esce la raccolta, Collaborations, che raccoglie tutti i suoi duetti, e poi Throw Down Your Arms, un disco reggae registrato in Giamaica.
Nel 2004 la cantante dà alla luce il suo terzo figlio, Shane, avuto con il guru della musica folk irlandese Donal Lunny.
Nel 2006 ne arriva un quarto, Yeshua Francis Neil, il cui padre è il nuovo partner della cantante, tale Frank Bonadio.
Nel 2007 esce Theology, doppio disco d’inediti, e più che il disco fanno notizia le sue affermazioni da Oprah Winfrey, in cui afferma di aver tentato il suicidio nel 1999 e che qualche anno prima gli è stato diagnosticato un disturbo bipolare, dichiarazione che però poi smentisce.
Insomma dai tempi della foto stracciata del Papa, sia umanamente che professionalmente Sinead sembra non averne azzeccata una.
Con gli anni dieci però qualcosa cambia, c’è gran voglia di anni Novanta, c’è nostalgia per quel decennio pazzo che alla musica ha dato tanto, e la nostalgia, si sa, è brava a ereggere santini. In anni in cui di dischi se ne vendono sempre meno, i live degli artisti dei nineties tornano a essere molto seguiti, anche quelli di Sinead, che di quegli anni è stato uno dei volti più riconoscibili.
E allora eccola, volubile, instabile e graffiante come sempre portare in tour i suoi ultimi due album – How About I Be Me (And You Be You)? (2012) e I’m Not The Bossy, I’M The Boss (2014) – con grande successo nel mondo, Italia compresa.
Ovviamente anche quando tutto va bene lei deve scazzare, protestare, farsi male. E facebook non è certo d’aiuto quando hai la testa che ogni tanto parte per la tangente e la lingua sciolta.
Prima posta uno status in cui afferma che non canterà più Nothing Compares 2 U perché non la sente più sua, e non riesce a dare emozioni al brano.
Di ben altro tenore sono le dichiarazioni successive, che gettano i suoi fans in preda alla preoccupazione. Il 29 novembre 2015 sulla sua pagina Facebook la cantante scrive: “Le ultime due notti mi hanno distrutto. Ho preso un’overdose. Non c’è altro modo per ottenere rispetto. Non sono a casa, sono in un hotel da qualche parte in Irlanda, sotto un altro nome”. E poi aggiunge: “Finalmente vi siete sbarazzati di me”, lasciando intendere un possibile suicidio.
Per fortuna le cose rientrano ma solo per poco, l’8 agosto 2017 eccola pubblicare un video di 11 minuti sempre sulla sua pagina Facebook che fa il giro del mondo e letteralmente sciocca i suoi ammiratori: “Sono da sola, tutti mi trattano male e sono malata. Le malattie mentali sono come le droghe. Vivo in un motel nel New Jersey e sono da sola. E non c’è niente nella mia vita eccetto il mio psichiatra, la persona più dolce al mondo, che mi tiene in vita. Voglio che tutti sappiano cosa significa, e perché faccio questo video. Le malattie mentali sono come le droghe, sono uno stigma: all’improvviso tutte le persone che dovrebbero amarti e prendersi cura di te ti trattano male”.
Sembra il preambolo all’ennesima storia di una grande della musica destinata a finire male ma invece Sinead tiene botta, si riprende ed emerge dai fumi di una mente scombussolata grazie all’ennesima doccia spirituale. Convertita all’islam, la cantante cambia nuovamente il suo nome in Shuhada’ Davitt e, ci crediate o meno, per un po’ ritrova il sorriso. Il suo ultimo tour, terminato poco prima dell’inizio dell’emergenza coronavirus, l’ha vista suonare in tutta Europa con sold out quasi ovunque, e sorridente come poche volte la si è vista.
Ma Sinead non è nata per essere serena, evidentemente. Arriva la fibromialgia, dolorosa e invalidante, e poi la cosa peggiore che possa capitare a una madre: la morte di un figlio, con il terzogenito Shane che si suicida lo scorso anno.
Non si conoscono ancora le cause della scomparsa di Sinead ma quella del suicidio, o comunque di una morte accelerata dalla depressione, è un’ipotesi assai plausibile. E dispiace, dispiace immensamente.
Sinead O’ Connor è stata una delle voci più affascinanti degli anni Ottanta e Novanta, un’artista ispirata e visionaria, dalla spiccata personalità, e coerente fino alla morte alla sua incoerenza.
Matta come un cavallo, stralunata, difficile ma, questo è innegabile, capace di pizzicare le corde del cuore e farne melodia.
Riposa in pace, occhi di cervo.

  • Federico Traversa

    Genova 1975, si occupa da anni di musica e questioni spirituali. Ha scritto libri e collaborato con molti volti noti della controcultura – Tonino Carotone, Africa Unite, Manu Chao, Ky-Many Marley – senza mai tralasciare le tematiche di quelli che stanno laggiù in fondo alla fila. La sua svolta come uomo e come scrittore è avvenuta grazie all'incontro con il noto prete genovese Don Andrea Gallo, con cui ha firmato due libri di successo. È autore inoltre autore di “Intervista col Buddha”, un manuale (semi) serio sul raggiungimento della serenità mentale grazie all’applicazione psicologica del messaggio primitivo del Buddha. Saltuariamente collabora con la rivista Classic Rock Italia e dal 2017 conduce, sulle frequenze di Radio Popolare Network (insieme a Episch Porzioni), la fortunata trasmissione “Rock is Dead”, da cui è stato tratto l’omonimo libro.

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Mia cara Olympe

Caso La Russa, chi sta dalla parte delle donne?

Una ragazza si sveglia, intontita, in un letto che non è il suo: i suoi vestiti non ci sono, accanto a lei un ragazzo, alla porta si affaccia un signore, il padre, e poi se ne va. Ricordi confusi e oscuri che si fermano molte ore prima, all’incontro in una discoteca che i giornali definiranno, ahinoi, ‘esclusiva’. Paura, sgomento, cos’è successo, la chat con l’amica che ricuce qualche frammento, forse sei stata drogata, scappa, il ragazzo che pretende un bacio per farla andare… Poi la metropolitana per tornare a casa e una madre che, ascoltato il racconto, fa quello che a Milano si può fare: accompagnare la figlia in un posto in cui l’accolgono come va accolta una donna traumatizzata e spaventata. Ovvero con cura, attenzione, competenza affinché la trafila delle visite e degli esami – importanti, fondamentali ai fini di ciò che accadrà dopo, ovvero il coté giudiziario, laddove lei decida di denunciare – avvenga in condizioni di sicurezza e rispetto.

Che la scena sopra descritta sia quella che domina la cronache e che vede indagato per violenza sessuale il figlio del presidente del Senato Ignazio La Russa è ovvio, ma renderla anonima serve a illuminare un altro aspetto della storia: ed è quello di ciò che accade o non accade dopo una scena che, in molti modi diversi, è storia di ogni giorno, è storia di tante donne. A chi ci si rivolge, chi soccorre, cosa succede ad una donna vittima di violenza, in un paese in cui abbiamo (anche) un serio problema di vittimizzazione secondaria. Ovvero di una risposta istituzionale come del sistema dei media non all’altezza e che spesso scredita le vittime, applica il pregiudizio e lo stigma sui  loro comportamenti – lo vediamo in queste ore da commenti e tweet, l’Italia è stata peraltro già condannata nel 2021 dalla Corte di Strasburgo per i toni usati in una sentenza su uno stupro di gruppo –  e in ultimo scoraggia le denunce. Nel 2006, il settimanale Diario dedicò un numero monografico alla violenza contro le donne e in uno degli articoli vennero intervistate e ascoltate quelle che chiamammo le soccorritrici: sì, tutte donne – poliziotte, ginecologhe, avvocate, operatrici dei centri antiviolenza – perché in Italia la violenza maschile contro le donne è affare delle donne da qualunque lato la si guardi e con buona pace delle marce antiviolenza degli uomini annunciate in altri tempi da La Russa e ora ricordate dalla ministra Eugenia Roccella. Il racconto delle soccorritrici confermava quanto delicato, profondo e necessario fosse il loro lavoro e l’ascolto delle donne e quanto farlo avesse profondamente cambiato loro stesse che, pure, erano e sono professioniste formate.

L’importante intuizione, sul finire degli  anni ’90, di Alessandra Kustermann, ginecologa della clinica Mangiagalli di Milano, è stata appunto questa: mancava  un luogo dedicato ad accogliere nell’immediato le donne e a mettere a disposizione gli strumenti e le competenze mediche, legali e psicologiche per affrontare l’accaduto e per sostenere ciò che eventualmente decidono, ovvero di rivolgersi all’autorità giudiziaria. L’enorme lavoro svolto in questi anni dal Servizio violenza sessuale della Mangiagalli ha permesso di affinare le procedure – non per caso Cristina Cattaneo guida l’équipe medico-legale – di aprire un altro servizio dedicato alla violenza dentro le mura domestiche, di rispondere come si deve e a tutto tondo – anche dal punto di vista legale –  ai circa 900 casi l’anno, come racconta al Corriere della sera Kustermann sottolineando che il 40% delle donne denuncia e in nove casi su 10 viene condannato il colpevole. Ma aldilà dei numeri delle denunce e dei procedimenti – è libera scelta delle donne decidere come superare la violenza subìta e se adire o no la via giudiziaria –  l’esperienza di Svs, insieme al lavoro dei centri antiviolenza, mostra la strada da percorrere, che è tanto concreta e di supporto alle vittime quanto necessariamente culturale, di formazione e di prevenzione della violenza sin dai banchi di scuola.

Insomma una buona pratica quella di Svs che dovrebbe essere norma in tutto il paese, disponibile non solo per quella ragazza di Milano ma anche per le sue coetanee e le donne di altre città e luoghi: altro che marce – non ci si stancherà di ripeterlo – servono politica, competenze, denari.

 

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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L'Ambrosiano

I maggiordomi e la marchesa

Con l’estate si diradano rom e immigrati che chiedono l’elemosina fuori dalle chiese. I milanesi vanno in vacanza, il caporalato no; col passa parola è arrivata sin qui la richiesta di braccia per i campi in Puglia: 30 euro al giorno per 10 ore senza cibo e alloggio. Va bene così a un Paese che gronda di narrazioni d’ottimismo. Per Elvira Calderone Ministra del lavoro niente salario minimo: ci sono i contratti (per chi li ha detto persino Confindustria). Nemmeno il cognato di Meloni ha da ridire: da Ministro dell’Agricoltura si occupa di “Sovranità Alimentare”: terra e cibo agli Italiani; immoralità nel lavoro? Torna all’altra casella. Va bene anche alla coscienza (bontà loro!) di aziende agricole (che pure i contratti li hanno), grande distribuzione, mercati: scarti di cibo, tuguri di lamiera o cartone, letti di paglia, latrine all’aperto chi raccoglie i pomodori sotto il sole li ha. Anche a noi cittadini va bene: il potere d’acquisto è eroso dall’inflazione; se rom e migranti sgobbassero per 9 euro l’ora non per 3 il libero mercato scaricherebbe su di noi il costo. Anche a molti media va bene; i maggiordomi delle videoveline meloniane devono occuparsi di: italianità del Governo; successi all’estero («l’Europa ha cambiato punto di vista» esulta la Premier); Orban e Morawieck però no (ci pensa Meloni a mediare: Varsavia e a Budapest han ragione a difendere gli interessi nazionali); irrisione delle “unioni innaturali” socialisti/popolari (per sua natura la destra preferisce Vox, Le Pen, neonazi tedeschi). Sembra andar bene a molti anche la vergogna di come il Governo ha trattato la Romagna alluvionata; 2 mesi e dal cilindro esce il Commissario Figliuolo: il generale anti Covid guarisca dal virus Bonaccini l’Emilia! Una canzone Anni 30 ebbe successo per il ritornello ironico: «Va tutto ben madama la marchesa». Il maggiordomo rassicurava la nobile padrona; in realtà s’eran distrutti edifici, marito, cavallo della signora. In Italia ci son oltre 5 milioni di poveri, ma siamo immuni dalla sindrome da banlieue per ora. Viviamo però “autunni caldi”. Meloni ascolti chi chiede giustizia sociale. Il troppo stroppia col “va tutto ben”; pure i maggiordomi posson cambiar padrone; e va lo stesso ben.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Appunti sulla mondialità

Francia, un paese a isole che si allontanano

Mi era capitato di assistere di persona alle violenze e ai saccheggi che segnarono il default dell’Argentina nel dicembre del 2001. Iniziati con gli assalti ai supermercati nelle periferie, senza dubbi motivati dalla fame, e continuati con il saccheggio dei negozi di moda, delle boutique, dei negozi di dischi in pieno centro di Buenos Aires. Non si cercava più il cibo, ma le scarpe firmate, le magliette alla moda, il televisore. Era la rivolta dei “poveri” che non avevano come programma abbattere il sistema, ma partecipare alla festa dei consumi servendosi da soli. Soprattutto giovani, apolitici, poco scolarizzati, disorganizzati, scomparsi appena la polizia si riprese le strade. Quello che è successo in questi giorni in Francia mi ricorda molto da vicino quei fatti del 2001, ma con diverse aggravanti. Anzitutto la frattura coloniale mai sanata dalla Francia repubblicana, che ha attirato immigrati dalle sue colonie a partire dal dopoguerra senza mai mettere in discussione quel passato. Poi la frattura sociale, il modello di sviluppo a isole di reddito, con la nascita delle periferie-ghetto dove la stragrande parte delle persone hanno origini etniche e situazioni sociali simili. Infine l’abbandono di quelle periferie con il progressivo restringimento del welfare. I detonatori sono state tutte queste cose, ma non è corretto parlare di “rivolta dei migranti” come vorrebbe una certa destra che pensa di rinforzarsi gettando benzina sul fuoco. È invece la rivolta dei poveri, degli esclusi, dei senza futuro, di coloro che non si riconoscono nei valori della Francia perché la Francia non li riconosce come figli legittimi. Quei giovani che, sbagliando, hanno manifestato la loro rabbia hanno scritto sul corpo, nel nome, nella loro residenza la condizione di “mezzo-francesi”. Non si riconoscono nei valori repubblicani, ma nemmeno in quelli dei paesi di origine dei loro nonni o genitori. Dal 2009 in Francia si sta usando il curriculum “cieco”, cioè senza nome, residenza, foto per evitare le discriminazioni nella ricerca di lavoro. Perché in Francia funziona così: se sei figlio o nipote di immigrati puoi aspirare solo al lavoro in fabbrica, al pubblico impiego (ma in mansioni modeste) oppure all’impiego che non richiede qualifiche particolari. Quei ragazzi che manifestano non vogliono rovesciare il capitalismo, come si chiedeva nel ’68, ma avere le stesse opportunità degli altri.
Nei prossimi giorni le telecamere si spegneranno fino alla prossima rivolta, ma un soggetto nuovo è emerso come un vulcano marino, più forte, più arrabbiato di prima, senza rappresentanza ne conduzione politica. La Francia sembra sempre di più un paese “a isole” che si allontanano con in mezzo una destra radicale che fa terrorismo mediatico invocando “sicure” guerre civili in arrivo. Non esiste più, se è mai esistita, la nazione come “comunità di destini” evocata da Edgar Morin. La Francia, socialmente parlando, è in fiamme e non riesce a trovare il modo di superare la faglia geologica coloniale sulla quale è stata costruita.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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Appunti sulla mondialità

L’estate mondiale del 2023

Nell’ultimo anno, sulla scena internazionale sono state confermate alcune tendenze e si sono affacciate nuove questioni. L’affanno per l’uscita dalla pandemia è stato prolungato dal conflitto ancora in corso in Ucraina: un fallimento militare dal punto di vista della Russia, che non ha raggiunto nessuno degli obiettivi annunciati al momento dell’invasione. La Crimea non è in sicurezza, i territori del Donbas sono ancora in bilico e il governo di Kiev è saldamente insediato. L’onda lunga del conflitto si è però abbattuta con forza anche molto lontano dallo scenario bellico. La sicurezza alimentare dell’Africa continua a essere in pericolo, l’inflazione dovuta all’aumento del prezzo delle materie prime preoccupa soprattutto l’Europa. E il mondo si è diviso in due, non tanto sull’interpretazione del casus belli, quanto sul come uscire dalla guerra. I Paesi della NATO, guidati nel conflitto da Stati Uniti e Regno Unito, hanno scommesso sulla vittoria di Kiev; i Paesi del Sud globale fin dal primo momento si sono posti come priorità la ricerca del dialogo tra le parti, ritenendo che non fossero possibili vittorie nette sul campo. L’Organizzazione degli Stati Africani, il Brasile di Lula e l’India di Narendra Modi, la Cina e addirittura il Vaticano da mesi fanno la spola tra Russia e Ucraina per provare a far ripartire il dialogo.

Nel frattempo, lo stallo ha confermato diverse cose che si potevano intuire da tempo. La prima è che i conflitti post-Guerra Fredda hanno forse una minore capacità distruttiva globale, ma sono più complicati da risolvere a causa del forte intreccio tra i diversi Paesi che si è creato nell’economia globale. La Russia non è più l’Unione Sovietica, che poteva contare sulla “sua” metà del mondo e, soprattutto, non dipendeva dai rapporti economici con l’Occidente; e i Paesi occidentali non possono più pensare di dettare linea al resto del mondo pretendendo un allineamento che nei fatti non esiste più. Il G7 è ormai depotenziato, ma il G20 non è ancora il suo successore. Prevale la competizione tra i diversi blocchi che aspirano ad avere le stesse armi, tecnologiche ed economiche, per affermarsi. I campi sui quali va in scena questo nuovo confronto sono quelli delle materie prime strategiche, come le terre rare e il litio, ma anche l’acqua e i beni alimentari, sui quali da anni sta investendo la Cina. Su questo fronte l’Occidente è impreparato, avendo basato il suo storico dominio sulla forza militare e tecnologica.

L’obiettivo evidente dei tanti Paesi che vorrebbero entrare nel gruppo dei BRICS è fare una scelta di posizionamento rispetto al nuovo bipolarismo che si va delineando. Nel suo discorso al “summit” per la nuova finanza, tenutosi a Parigi il 22-23 giugno, Lula ha chiesto il superamento degli Accordi di Bretton Woods che disegnarono l’economia mondiale del dopoguerra, e di conseguenza il ridimensionamento del dollaro statunitense quale moneta mondiale. Su questo fronte le armi non servono: serve invece la politica, una dimensione abbandonata da molto tempo.

In qualche modo l’estate del 2023 sancisce la fine del lungo periodo inaugurato dalle cannoniere che in epoca vittoriana piegarono l’Asia e l’Africa, e in America dalla “politica del cortile di casa” attuata da Washington nei confronti dell’America Latina. Le distanze restano siderali, è evidente, ma l’interdipendenza tra Stati e continenti è arrivata a un livello tale da non lasciare spazio per operazioni “fuori dal sistema”. Nei prossimi mesi la capacità di fare buona politica sarà cruciale per chiudere il conflitto in Europa, disinnescare le tensioni nel mar della Cina e, soprattutto, affrontare il tema del cambiamento climatico, applicando le misure necessarie ad arginarlo e a farci convivere con le sue conseguenze: è la priorità numero uno del pianeta Terra. In caso contrario, la paralisi attuale può lasciare spazio solo a un peggioramento della situazione. Un orizzonte per il quale però il tempo è scaduto, e da molto.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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