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L'Ambrosiano

Rumore, vita, riscatto

Il minuto di silenzio per Giulia convertito in rumore rivela l’ineludibile necessità di disporsi a un cambiamento: individui e comunità-Paese. Forse da adulti stiamo sbagliando nel sorprenderci e disquisire sull’iniziativa di Elena sorella di Giulia che ragazze e ragazzi han fatto invece propria. Il silenzio è sconfitta, capitolazione all’ineluttabilità del male, rassegnazione come non potessimo far niente tanto accadrà ancora; è resa a una visione dell’umanità senza riscatto, riabilitazione, redenzione; il silenzio è Ombra che risucchia, non ha futuro. Il rumore è rivoluzionario: sembra caos, indifferenziazione, babele; ma dissonanze e acuti son premesse d’un possibile concerto. Lo intuì Fellini in Prova d’orchestra (1979) film profetico: non capito a sinistra. È l’apologo d’una società in cui se da egoisti ci limitiamo a trarre il suono dal nostro strumento, se puntiamo tutto su di noi (la prestazione per consensi, plauso, vantaggi) non c’accorgiamo del nuovo che travolge autoriferimenti personali, appartenenze, interessi. Se invece affiniamo suoni, maestria di ciascuno, ci accordiamo siamo sinfonia. Dopo Giulia educare all’affettività come risposta all’intollerabile violenza alle donne conta se è rispetto di tutti: assoli, suoni acuti, stridii; se è ascolto, accoglienza di valori insiti in ogni voce flebile o possente; se rinuncia a precomprensioni, presunzioni, ovvietà, ideologie, conformismi. Educare è “tirar fuori” il tesoro che l’altro ha dentro per il solo fatto d’esser qui oggi, individuo e parte d’una comunità: luci e ombre, valori e pregiudizi, slanci e ossessioni. Educare è crear le condizioni perché ragazze e ragazzi si sentano liberi e protetti, s’esprimano; è costruire spazi per silenzi, incertezze: riconoscersi in impotenze, incompetenze, crederci e cercare ancora. Educare è esser testimoni coerenti, porre basi per una fiducia in chi ci sta davanti, occhi negli occhi. Rumore di giovani, piazze, sindacati, del Paese reale: persone non riconosciute (donne in testa!), emarginati, poveri, migliaia di ragazze e ragazzi che aspettano ius soli e ius culturae (ah, sinistra distratta!), assetati di giustizia. Evitiamo provocazioni da destra. Il rumore copre slogan, ideologie, soliloqui social, cliché identitari.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Pensando a Giulia, ad un figlio oggi direi…

Ad un figlio oggi direi che, mentre pensiamo alla morte orribile di un’altra Giulia, occorre guardarla con coraggio, questa violenza maschile. E che a questo serve il coraggio.

Gli direi di non mettersi sulla difensiva. Di non pensare che non lo riguardi, perché lui è diverso. Di non pensare che glielo ho detto mille volte. Gli direi di parlare di cosa gli fa paura e di cosa gli piace, del desiderio e della libertà. Gli direi che io sono io e tu sei tu, che ci sono i confini, i segreti, anche le bugie e tutto quello che ognuno  e ognuna vuole tenere per sè. Gli direi che innamorarsi è bellissimo. Gli direi di sostenere e non di proteggere. Gli direi di fidarsi ma non di affidarsi. Di stare in piedi da solo e di non pretendere di essere sorretto. Gli direi che il conflitto esiste sui tanti tavoli della vita e che bisogna imparare ad agirlo e gestirlo, e non si impara mai abbastanza. Gli direi di uscire a farsi un giro quando è troppo. E poi di tornare e riparlarne. Gli direi di non lasciare la polvere sotto il tappeto. Gli direi di essere (molto) amico delle sue amiche, di sua sorella, delle sue cugine, delle donne con cui lavora. Gli direi che, ogni giorno, ciascuno di noi è insieme la versione migliore e la peggiore di se stesso e che continuare a lavorarci sopra è una fatica ma necessaria. Gli direi che ogni tanto ci si sente soli, non capiti, infelici e bisogna starci dentro. Gli direi che può fare qualcosa, anzi tanto: lui e i suoi simpatici amici. Parlarne per esempio, anche giocando alla play o dopo gli allenamenti o alla macchinetta del caffè in ufficio. Gli direi di non lasciare correre, che come si parla è importante. Gi direi che non esistono ‘le donne’, ma quella donna e quell’altra. Gli direi di leggere, ascoltare, riprendere in mano la storia, per capire com’era ieri e perché siamo ancora qui oggi, perché non è eguale tra uomini e donne.
Gli direi di non avere paura di sbagliare un calcio di rigore, ovvero di fallire, ovvero di non arrivare primo: non è da questi particolari che si giudica un giocatore. Gli direi di continuare ad andare a prendere la palla e continuare a giocare con le altre e con gli altri, e di non stancarsene.

E  gli direi che oggi, mentre penso a Giulia, sono triste e sfiduciata, che mi sembra di non capire e di non fare abbastanza e che mi spaventa – guardando tutti questi ‘bravi ragazzi’ –  quanto non sappiamo degli altri, anche delle persone più care, anche di quelli che abbiamo cresciuto. E che però io ci credo, continuo a credere ad un diverso parlarsi tra uomini e donne e che una delle cose cui tengo di più è continuare a parlare con lui.

  • Assunta Sarlo

    Calabromilanese, femminista, da decenni giornalista, scrivo e faccio giornali (finché ci sono). In curriculum Ansa, il manifesto, Diario, il mensile E, Prima Comunicazione, Io Donna e il magazine culturale cultweek.com. Un paio di libri: ‘Dove batte il cuore delle donne? Voto e partecipazione politica in Italia’ con Francesca Zajczyk, e ‘Ciao amore ciao. Storie di ragazzi con la valigia e di genitori a distanza’. Di questioni di genere mi occupo per lavoro e per attivismo. Sono grata e affezionata a molte donne, Olympe de Gouges cui è dedicato questo blog è una di loro.

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Appunti sulla mondialità

Un mondo di plastica

C’è dappertutto, dalle cime delle montagne alle profondità degli oceani. E anche nell’organismo degli animali, esseri umani inclusi. Sua maestà la plastica ha rivoluzionato il nostro mondo: oggi è il terzo materiale prodotto  dopo acciaio e cemento. La prima materia sintetica nacque in laboratorio subito dopo la metà dell’Ottocento, era un tipo di celluloide; di poco successiva fu l’invenzione della “seta artificiale” derivata dalla cellulosa, il rayon, materiale prodotto industrialmente già alla fine del XIX secolo. Attorno al 2000 sono nate le bioplastiche, elaborate con il mais e altri prodotti naturali. In mezzo c’è stata l’invenzione di PVC e PET, diventati parte essenziale della nostra vita quotidiana: materiali duttili, leggeri, durevoli e soprattutto economici, adatti a mille usi diversi. Ma i problemi creati dalla diffusione capillare delle plastiche stanno proprio nel concetto di “durevole”, oltre che nell’utilizzo delle materie prime necessarie per fabbricarle: soprattutto cellulosa, carbone, gas naturale e tanto petrolio.

Il “boom” della plastica si deduce facilmente dai numeri. Nel 1964 se ne producevano in tutto il mondo 15 milioni di tonnellate; nel 2017 le tonnellate prodotte erano 310 milioni. Secondo i dati del WWF, ogni anno finiscono negli oceani circa 8 milioni di tonnellate di plastiche: si stima che in acqua ve ne siano già più di 150 milioni di tonnellate. Se si confermasse l’attuale tendenza, nel 2025 avremo nei mari una tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce, mentre tra vent’anni la plastica supererebbe la fauna marina. Nel corso del tempo, la plastica si degrada rilasciando le cosiddette microplastiche, cioè minuscole particelle che vengono ingerite dalla fauna marina e poi anche da noi, quando mangiamo pesce o semplicemente quando beviamo acqua potabile, perché entrano nel ciclo dell’acqua.

La plastica è però anche un materiale democratico, che permette di vendere a basso costo tantissimi prodotti che in molti Paesi, soprattutto per le classi sociali più basse, sono gli unici a portata d’acquisto: dalle ciabattine ai secchi per trasportare l’acqua, dai vestiti ai contenitori del cibo, la plastica è sempre presente nella vita dei più poveri della Terra. Difficilmente se ne potrà fare a meno, ma bisognerebbe regolamentarne l’uso e soprattutto lo smaltimento. È il compito che si è dato il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente (UNEP), che dal 13 al 19 novembre ha organizzato un incontro a Nairobi per cercare di far approvare un trattato globale sull’uso della plastica. È un percorso lento, che ha già avuto due tappe in Uruguay e in Francia, e che si prevede di concludere entro il 2025. La bozza attorno alla quale si sta lavorando si articola su tre punti fondamentali per quanto riguarda la produzione di plastica: fissare un obiettivo di riduzione, sulla scia del Protocollo di Montréal sull’ozono; fissare dei target globali definendo tabelle di marcia per ogni singolo Paese, come nel Trattato di Parigi sul Clima; evitare che siano i singoli Governi a fissare gli obiettivi, perché potenzialmente ricattabili da parte dell’industria del petrolio. Per le compagnie del comparto oil, infatti, il progressivo calo del consumo di idrocarburi fossili nel settore energetico, dovuto all’uso di energie rinnovabili, dovrebbe essere “compensato” anche dall’aumento della fabbricazione di plastiche. È l’ennesimo collegamento tra temi apparentemente lontani che racconta la complessità e soprattutto l’interconnessione dei problemi della Terra. Più energie rinnovabili si usano, più plastica si rischia di fabbricare: questo perché si continua a rimandare il confronto sul tema centrale, quello del nostro modello di sviluppo, impostato ancora sull’utilitarismo. Tutti sappiamo quanto siano utili le plastiche, ma al contempo evitiamo di fare i conti con le ricadute sull’ambiente e sulla salute umana.

  • Alfredo Somoza

    Antropologo, scrittore e giornalista, collabora con la Redazione Esteri di Radio Popolare dal 1983. Collabora anche con Radio Vaticana, Radio Capodistria, Huffington Post e East West Rivista di Geopolitica. Insegna turismo sostenibile all’ISPI ed è Presidente dell’Istituto Cooperazione Economica Internazionale e di Colomba, associazione delle ong della Lombardia. Il suo ultimo libro è “Un continente da Favola” (Rosenberg & Sellier)

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L'Ambrosiano

Il dopo

Macerie a Kiev, macerie a Gaza e Cisgiordania, macerie istituzionali (ci sono anch’esse) a Roma. Putin, Hamas, Netanyahu, Meloni: centrali distrutte, stragi terroristiche orrende, civili inermi bombardati ed esiliati, l’indigerita sconfitta di padri repubblichini vendicata. I leader non san però cosa sarà dopo. Come non lo sanno l’Europa sospesa tra non politica estera e retorica di aiuti all’Ucraina sino alla vittoria; Biden che ammonisce Israele a non compiere gli errori Usa dopo l’11 settembre ma ha le elezioni; la Cina presente nell’economia eppur lontana. La sfida è il dopo non pensato; il dopo di città rase al suolo, umanità umiliata, geopolitica rimescolata; il dopo in ispecie d’imprevedibili processi psichici inconsci avviati. La distruttività non immaginabile due anni fa ha mostrato il circolo vizioso paura-odio-violenza. Chi spara per primo attiva paura in chi è colpito e negli spettatori. Scattano processi d’identificazione con la vittima e d’imitazione dell’aggressore, reazioni per simpatia (gli esplosivi deflagrano a catena); figli della paura son risentimento e odio, il quale genera solo odio; l’odio cova ulteriori pretesti di violenze. I violenti credono d’esser loro i protagonisti, ma la coscienza è cieca, agita dal ribollire d’oscurità magmatiche. L’autodistruzione è un destino? Lo fan temere volti coperti di terroristi, bombe di eserciti, insolenze istituzionali, parole violente, politici simili a zombi socialdipendenti. Ma l’ineluttabile non esiste. La storia è fatta di processi. Conscia e inconscia anche la psiche è storia: lavora per fasi che vengono da lontano e più lontano vedono. Maestra di vita anche per chi la nega la storia insegna che l’uomo cresce e procede nella complessità. Paga prezzi intollerabili quando qualcuno punta tutto all’eliminazione dell’altro. Ma il peggior crimine contiene in sé la propria fine: l’horror vacui della morte e il seme della libertà. Italia e Europa ce l’han fatta con la Liberazione. Han creduto fosse per sempre. Ma la bella addormentata è lì per esser risvegliata. Meloni (premierato, Capo dello Stato svilito, Sindacati avversati) e Salvini (allergico ai diritti) ripassino la storia prima di fantasticare autocrazie o nostalgie o di flirtare con la Le Pen.

  • Marco Garzonio

    Giornalista e psicoanalista, ha seguito Martini per il Corriere della Sera, di cui è editorialista, lavoro culminato ne Il profeta (2012) e in Vedete, sono uno di voi (2017), film sul Cardinale di cui firma con Olmi soggetto e sceneggiatura. Ha scritto Le donne, Gesù, il cambiamento. Contributo della psicoanalisi alla lettura dei vangeli (2005). In Beato è chi non si arrende (2020) ha reso poeticamente la capacità dell’uomo di rialzarsi dopo ogni caduta. Ultimo libro: La città che sale. Past president del CIPA, presiede la Fondazione culturale Ambrosianeum.

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Mia cara Olympe

Violenza di genere: lo sapevamo tutte, non tutti

Si torna, mentre ancora, dopo giorni, non c’è traccia di Giulia Cecchettin e di Filippo Turetta, – 22 anni entrambi, una relazione che lei aveva concluso e la cui fine lui non aveva accettato, ultime tracce lui che la strattona in un parcheggio e la rimette in macchina a forza – si torna qui a parlare dell’automatismo che ci porta a pensare come epilogo più probabile quello che non vorremmo mai accadesse a nessuna e che accade invece a più di cento donne all’anno, morte ammazzate per mano di chi professava amore.

Se ne torna a parlare dopo averne scritto qui in morte di Giulia Tramontano ed era solo qualche mese fa e dopo aver ascoltato, nelle trasmissioni di Radio Popolare condotte da Lorenza Ghidini prima e Massimo Bacchetta poi, il dibattito e le tante risposte a questa domanda: come mai scatta immediato quel pensiero, come mai, pur sperando evidentemente in una smentita, lo sappiamo tutte ogni volta che accade?

Potrebbe sembrare una domanda ovvia: cos’altro pensare se da dieci anni a questa parte è inalterato il numero dei femminicidi in Italia – più di 100, racconta Action Aid che ha denunciato il taglio dei fondi per la prevenzione della violenza di genere – e dunque è la statistica a indicarci come più probabile l’epilogo violento. Cos’altro pensare se è vero che la questione della violenza di genere è diventato tema mainstream  della politica come dei media e dunque se ne parla e se ne parla – come è un’altra faccenda. Cos’altro pensare se è vero che la tv del dolore ha abituato i palati a nutrirsi letteralmente di lacrime e sangue e questo è anche il paese in cui su Tik Tok intanto impazza Malessere della neomelodica Fabiana che conquista le ragazzine cantando che il ragazzo  che vuole deve essere cattivo e geloso, che s’arrabbia quando lei esce con le amiche e la controlla?

E dunque la statistica, la comunicazione, il discorso  pubblico… tutto – e in modi anche contraddittori –  conduce verso quell’automatismo, quel pensiero. Innegabile, se non fosse per quel femminile plurale – lo sapevamo tutte, non tutti –   che  suggerisce un’altra riflessione. Lo sapevamo tutte, ovvero  tutte donne e in quanto tali legate – volenti o nolenti, consapevoli o meno –  dalla possibilità di essere quella ragazza che va all’appuntamento perché lui è depresso e  dispiace, quella donna che non si rassegna e non scappa in tempo, e quell’altra e quell’altra ancora. Lo sapevamo tutte vuol dire anche che può capitare a tutte  ed è una catena che lega le donne più diverse l’una all’altra e  ciascuna nel proprio intimo, se ci guarda bene,  lo sa. E, per inciso,  credo sia questa una delle ragioni del grande successo del  bel film di Paola Cortellesi ‘C’è ancora domani’, l’aver evocato con la storia della sua Delia quel filo comune che lega la vita delle donne, ieri nel patriarcato violento, ma ancora adesso, qui e ora… L’essere tutte potenziali vittime non deve sembrare un’esagerazione né tantomeno resa o rassegnazione ad un destino immutabile: significa o almeno si spera possa significare sempre di più consapevolezza e capacità di stare alla larga da relazioni tossiche e di costruirne di eque e libere. Ma intanto quel campanello d’allarme è suonato ancora una volta, per un’altra giovanissima Giulia: e quanto riguardi tutte, quanto ci parli di una diseguaglianza feroce e non sanata ciascuna donna lo sa.

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    Prospettive Musicali - 07-12-2025

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    Giocare col fuoco: storie, canzoni, poesie di e con Fabrizio Coppola Un contenitore di musica e letteratura senza alcuna preclusione di genere, né musicale né letterario. Ci muoveremo seguendo i percorsi segreti che legano le opere l’una all’altra, come a unire una serie di puntini immaginari su una mappa del tesoro. Memoir e saggi, fiction e non fiction, poesia (moltissima poesia), musica classica, folk, pop e r’n’r, mescolati insieme per provare a rimettere a fuoco la centralità dell’esperienza umana e del racconto che siamo in grado di farne.

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    Quaranta minuti di musica e dialoghi cinematografici trasposti, isolati, destrutturati per creare nuove forme emotive di ascolto. Ogni domenica dalle 13.20 alle 14.00, a cura di Stefano Ghittoni.

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