Quando si arriva sulla costa mediterranea della Siria si notano subito le differenze rispetto alle grandi città nel centro del paese. Questa è la zona della minoranza alauita, la comunità di riferimento della famiglia Assad, che in cambio della fedeltà le aveva assicurato i posti migliori nella burocrazia statale e nelle forze armate. Per gli alauiti – una sezione degli sciiti – la religione islamica è molto meno importante rispetto alla maggioranza sunnita. Non è un caso che molte donne qui non abbiano il capo coperto.
In questi mesi questo è punto di osservazione preziosissimo per capire quale possa essere il futuro del paese. Qui lo scorso marzo sono state uccise almeno 1500 persone, nel peggior fatto di sangue dalla caduta del vecchio regime. Arriviamo a casa di Samir, 68 anni, a metà mattina. Lo ringraziamo per aver accettato di incontrarci. Lui ci ringrazia per essere venuti fin qua. Siamo nella città di Baniyas.
Samir ha gli occhi lucidi. Sa che siamo qua per parlare di quanto successo a marzo. Ci spiega che spesso si emoziona e potrebbe non riuscire a parlare. Una volta seduto sul divano e dopo un paio di sigarette sembra più rilassato. Gli chiediamo di raccontarci come possa essere qui a ricordare quelle giornate, visto che molti suoi vicini di casa, compresi due suoi fratelli, sono stati uccisi. “Siamo stati fortunati, dopo 24 ore barricati in casa a sentire le grida dei vicini e gli spari ho chiamato un amico, oltretutto un amico sunnita. È venuto qui sotto in macchina ed è riuscito a portarci via. Io, mia moglie e i nostri due figli. Davanti agli occhi dei miliziani”.
Nel marzo scorso le nuove forze di sicurezza vennero attaccate non lontano da qua – verso le montagne – da gruppi armati legati al vecchio regime, qui li chiamano Flool. Le forze di sicurezza chiamarono rinforzi ma da fuori arrivarono anche diversi civili con le loro armi e alcune milizie. Questo passaggio è poco chiaro. Ed è poco chiaro anche quanto successo dopo, l’uccisione appunto di almeno 1500 civili della comunità alauita. I sopravvissuti, come lo stesso Samir, hanno raccontato di aver visto diversi assalitori con la divisa delle forze di sicurezza. Sicuramente alcuni settori del nuovo apparato militare hanno avuto un ruolo in questa vicenda.
Mentre parliamo con Samir arriva suo nipote Murat, 35 anni. Anche lui con una sigaretta in bocca e gli occhi segnati dalla fatica e dal dolore. Ha delle profonde occhiaie nere. Anche Murat si è salvato e accetta di spiegarci in quale modo. Lo seguiamo fino a casa sua, due minuti e piedi. Saliamo sul tetto del condominio. “Eravamo qua – ci racconta – io mio padre e i nostri vicini di casa. Davanti a noi due miliziani armati. Quello più anziano ha ordinato a quello più giovane di spararci e di ucciderci. Ho sentito un colpo alla schiena e ho perso conoscenza. Quando mi sono svegliato ho visto che tutti gli altri erano morti, compreso mio padre”.
La convivenza tra le diverse comunità etnico-religiose del paese è una delle incognite dalle quali dipenderà il futuro della Siria. In un contesto nel quale c’è uno stato in costruzione il rischio che la gente si faccia giustizia da sola è molto alto. Soprattutto se si considera quello che c’è stato prima: oltre 50 anni di dittatura – dove la minoranza alauita era la minoranza privilegiata e protetta – e 13 anni di guerra civile.
Andiamo nella sede delle nuove forze di sicurezza di Baniyas. Dall’accento si capisce chiaramente che nessuno sia del posto. Sono tutti di Idlib, sopra la costa mediterranea. Fino alla caduta di Assad Idlib era la roccaforte di Hayat Tahrir al-Sham, il principale gruppo armato ad aver provocato la caduta del vecchio regime. Il suo ex-comandante Al-Sharaa è oggi il nuovo leader siriano. “A marzo siamo stati attaccati dai sostenitori di Assad, abbiamo perso 17 uomini – ci spiega il comandante della sicurezza di Banias con uno sguardo fermo sui nostri occhi – a quel punto abbiamo cominciato un’operazione per riprendere il controllo del territorio e ristabilire l’ordine. Sono arrivati rinforzi ma anche molti civili armati da altre zone del paese. C’è chi non ha rispettato i nostri ordini. Da lì le violenze e i morti”.
A questa versione molti alauiti non credono, anche perché hanno visto diversi uomini in divisa tra gli assalitori. Lo stesso Murat ci ha raccontato di aver visto ancora in giro, a un posto di blocco, l’uomo che ha sparato a suo padre sul tetto della loro casa. Tra Baniyas e Tartous c’è quello che rimane di una grossa statua di Hafez al-Assad, il padre di Bashar. La statua è stata abbattuta, l’era degli Assad è finita. Il futuro della Siria però è ancora pieno di incognite.
Gioia e dolore: le due facce della Siria nel primo anniversario della caduta di Assad

In queste ultime ore ci ha fatto una certa impressione osservare i continui festeggiamenti per le strade di Damasco. Festeggiamenti che non si sono mai fermati, nemmeno durante la notte. Musica, balli, fuochi d’artificio, spari, rose nei giubbotti anti-proiettile dei poliziotti, e sorrisi tanti sorrisi. Un profondo senso di liberazione e un sentimento di speranza, in buona parte quello che si percepiva proprio qui, a Damasco, lo scorso anno, subito dopo la caduta del vecchio regime. La dittatura è durata così tanto, oltre mezzo secolo, che la sua fine va metabolizzata poco alla volta. I festeggiamenti di oggi seguono l’onda lunga di quelli di un anno fa.
La gioia per le strade di Damasco, i selfie e i sorrisi, stonano di fronte ai tanti problemi della Siria di oggi. O forse sono proprio la loro valvola di sfogo. Siamo stati per esempio sulla costa mediterranea e abbiamo parlato con alcuni sopravvissuti al massacro dello scorso marzo. Almeno 1.500 morti nella comunità alauita, la comunità di riferimento degli Assad. Hanno ancora paura e non si fidano del nuovo governo e delle sue forze di sicurezza. In questi giorni niente festa nemmeno nella regione curda nel nord-est e in quella drusa a sud.
Siamo stati anche in alcune delle aree più martoriate durante la guerra. Dove la gente non ha nulla. Molti vivono sulle macerie delle loro case, nelle stesse tende che si sono portati dietro dal Libano. Mahmoud vive a Bueida, provincia di Homs, ha perso la vista mentre combatteva contro l’esercito regolare. Oggi lo accompagna per mano, ovunque, il figlio di 7 anni: “Assad è il responsabile di tutto questo, ma in fondo la nostra condizione materiale è la stessa di prima, anzi, forse stiamo peggio, mangiamo solo pane e patate”.
E poi abbiamo parlato con diverse persone che per i motivi più svariati hanno a che fare con il nuovo sistema. Lamentano già troppa burocrazia e un eccessivo controllo. Anche noi per allungare il nostro visto siamo dovuti passare da sei uffici diversi nello stesso edificio. Timbri, firme, fogli, documenti.
Una delle chiavi per comprendere la distanza tra i sorrisi per le strade di Damasco in questi giorni e le tante contraddizioni, ce l’ha data Amina, mentre guardava una sfilata militare nel centro di Damasco: “abbiamo un nuovo governo certo, è un cambiamento epocale, ma ci vorrà molto tempo perché i siriani non hanno ancora capito come muoversi in questo nuovo contesto”. Amina ci dice anche che bisogna avere speranza, perché la speranza è tutto quello che hanno.
A un anno dalla caduta del regime di Assad, la Siria prova a guardare avanti

Il conducente dell’autobus che ci porta dall’aereo alla zona arrivi dell’aeroporto di Damasco guida con una mano sola. Con l’altra deve tenere chiusa la portiera alla sua sinistra. Non ha molte alternative. La prima sensazione che ti dà la Siria a un anno dalla caduta di Bashar al-Assad – l’anniversario sarà tra pochi giorni – è quella di una profonda precarietà. La volontà di tutti, o quasi tutti, sembra quella di guardare avanti, di non ripetere quanto successo nell’ultimo mezzo secolo – prima una lunghissima dittatura, poi un’estenuante guerra civile. Ma allo stesso tempo si percepisce una grande fatica nell’individuare la strada giusta per andare avanti. La stessa difficoltà che sta facendo il conducente dell’autobus all’aeroporto di Damasco, che, però, non si ferma. I continui black-out elettrici, la mancanza di acqua, la povertà diffusa, sono esempi ancora più concreti, soprattutto se pensiamo che colpiscono una popolazione che arriva da un periodo infinito di sofferenze, fisiche ed emotive. Sofferenza che sta tutta nello scenario di distruzione totale in una buona parte della cintura intorno a Damasco, per esempio a Jobar o Douma, ex-roccaforti dell’opposizione armata al vecchio regime che Assad aveva punito con assedi, bombardamenti a tappeto, attacchi chimici. Vale lo stesso per il centro di Homs.E anche quando la ricostruzione è cominciata – i progetti con fondi che arrivano per esempio da Turchia e Qatar non mancano – procede tutto a rilento. Nelle scuole, quando va bene, si fa il doppio turno. Uno al mattino, un altro al pomeriggio. I siriani ci invitano spesso a lasciare la nostra prospettiva occidentale: riusciranno i nuovi governanti a garantire la convivenza tra i vari gruppi etnico-religiosi? Il nuovo leader, Al Sharaa, eviterà l’avanzata del radicalismo? La nuova Siria sarà democratica?Per loro le domande e le aspirazioni sono altre, più semplici. L’asticella, dal nostro punto di vista, si abbassa.
I siriani vogliono prima di tutto vivere e mangiare. E poi c’è la necessità di fare ordine, di digerire senza dimenticare, rispetto a tutto quello che è successo prima. Voltare pagina non può voler dire dimenticare.
Ce lo ricordano i familiari dei tanti siriani scomparsi sotto Assad, centinaia di migliaia.“Per affrontare il futuro – ci spiega Leena, che da anni cerca suo fratello – abbiamo bisogno di giustizia”.
Davanti al Mar Mediterraneo di Tartous – nella zona alauita ex-roccaforte degli Assad – Kemal, dentista e interprete, qui è meglio fare due lavori, ci spiega che “la Siria è come una donna in gravidanza che deve ancora partorire, non sappiamo quello che sarà”. Forse Kemal ha ragione.


