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Qatar, a un anno dai mondiali di calcio nessun progresso sui diritti dei lavoratori migranti

Qatar cantiere stadio

Più di sette nuovi stadi, un nuovo aeroporto, strade, sistemi di trasporto pubblico, alberghi e una nuova città. Il Qatar si sta preparando da 10 anni per i mondiali di calcio del 2022. Ormai mancano solo 12 mesi e il paese vuole essere scintillante. Così scintillante che per realizzare questi progetti ambiziosi, migliaia di lavoratori sono morti. Altri due milioni di persone, principalmente migranti, lavorano nei tantissimi cantieri qatarioti, con condizioni lavorative insostenibili. A settembre 2020, era stata approvata una riforma molto attesa, che avrebbe dovuto migliorare la vita dei lavoratori e avrebbe dovuto assicurare loro alcuni diritti fondamentali. Una riforma che era stata definita una pietra miliare e che era stata accolta con grande entusiasmo dalla comunità internazionale. Oggi, a poco più di un anno dall’entrata in vigore delle nuove leggi, Amnesty International ha pubblicato un rapporto che dice sostanzialmente una cosa: non è cambiato niente.

Per capire di cosa stiamo parlando, bisogna partire da una parola: Kafala. E’ difficile tradurla, ma potrebbe essere intesa come “Garanzia”. E’ un sistema di sponsorizzazione del lavoro migrante, che però – di fatto – lega il lavoratore al suo datore di lavoro, al punto che non può cambiare lavoro o lasciare il paese senza il suo permesso. Le leggi di cui parlavamo prima avrebbero dovuto eliminare questo aspetto, permettendo ai lavoratori di poter scegliere liberamente quando interrompere un contratto. I lavoratori raccontano che inizialmente, subito dopo l’emanazione delle nuove leggi, le cose sembravano andare meglio, ma dopo poco è tutto ripiombato nelle stesse dinamiche di prima.

Un lavoratore migrante, citato nel rapporto di Amnesty, racconta che effettivamente sulla carta le cose sono cambiate, ma che basta entrare in un cantiere e parlare con i lavoratori per capire che le cose non sono migliorate. Ad esempio, la riforma avrebbe teoricamente eliminato l’obbligo del cosiddetto NOC, ovvero un certificato di non-obiezione che il lavoratore è tenuto a presentare prima di iniziare un’altra occupazione, e che deve ottenere dal precedente datore di lavoro.
Sulla carta quindi questo obbligo non c’è più, ma i datori di lavoro riescono ancora a bloccare i trasferimenti dei lavoratori e a tenerli sotto controllo, chiedendo ad esempio somme esorbitanti – in alcuni casi, cinque volte superiori al salario mensile – per concedere il nulla-osta.

Aisha, una lavoratrice filippina contattata da Amnesty, ha raccontato di essere stata minacciata dal suo datore di lavoro dopo essersi rifiutata di firmare un nuovo contratto con lui e aver chiesto di poter cambiare lavoro. Le è stato chiesto di pagare 6mila Ryail di Qatar per poter avere il suo nulla-osta o altrimenti sarebbe stata rimandata nel suo paese. “Tutta questa situazione colpisce me e la mia famiglia, perché sono io che spedisco i soldi a casa e quindi non è facile per me gestire questa situazione. Ogni tanto vorrei non alzarmi più al mattino”, racconta Aisha. E il suo è solo uno dei tantissimi casi raccolti da Amnesty, a dimostrazione del fatto che la Kafala è più forte di qualunque cosa, anche delle leggi statali. A questo si aggiunge poi una quasi totale mancanza di controlli sulle aziende private che assumono questi lavoratori, pagandoli pochissimo e – di fatto – avendo un controllo quasi totale sulle loro vite.

Manca un anno ai mondiali in Qatar e nulla è cambiato. Il paese accoglierà il mondo del calcio nella sua veste nuova e scintillante, ma a quale prezzo?

  • Autore articolo
    Martina Stefanoni
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