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Monza, l’orto sociale “Granidipepe”

Prendere un’area incolta, un campo che negli anni era diventato un deposito di rifiuti abbandonati, e farla diventare una speranza per molti ragazzi, i loro genitori e perché no per l’intero quartiere Cederna, una zona a sud est di Monza.
Il progetto si chiama “Granidipepe”, è un orto coltivato da molti volontari, alcuni ragazzi disabili, i loro genitori e gli studenti di una scuola di formazione che si trova a pochi metri dal terreno.

L’orto, che inizia a diventare un riferimento per gli abitanti più vicini, non è solo un progetto per rendere fertile un pezzetto di terra, come accade in altre città con gli orti urbani, ha un obiettivo preciso e concreto: grazie all’acquisto, in termini di offerta libera, dei prodotti della terra, si finanzia una parte della casa che l’associazione Uroburo vuole costruire per otto ragazzi disabili, una residenza dove sperimentare il loro grado di autosufficienza e così rispondere a quella domanda che per molti genitori di figli disabili spesso è un assillo: “che sarà dopo di noi?”

Granidipepe 01

I genitori dei ragazzi coinvolti nel progetto lo chiamano “il dopo e il durante noi”, perché questo futuro lo stanno costruendo insieme.

Nel 2016 è stata approvata la legge chiamata significativamente “dopo di noi”, che aveva come obiettivo la presa in carico e il sostegno futuro alle famiglie con figli disabili. Al momento sono poche le Regioni che hanno approntato e finanziato progetti di questo tipo con il fondo nazionale previsto dal Governo, la Lombardia è tra queste. In questo caso, il progetto della residenza parte da lontano, dal lavoro di associazioni che da trent’anni si occupano di disabilità.

La casa, tutta da ristrutturare, si trova a pochi metri dall’orto, si tratta di alcuni locali che un tempo erano adibiti ad asilo per i bambini, inseriti in un complesso antico, il Convento di Cederna.

Granidipepe 02

Il Comune di Monza l’anno scorso l’ha assegnato alle associazioni coinvolte in questo progetto, ma i lavori per ristrutturare la struttura sono molto impegnativi e costosi. Da qui l’idea dell’orto, una grande porzione di terra incolta, concessa dalla Parrocchia del quartiere all’associazione.

I ragazzi si sentono utili, e gli abitanti inizialmente attratti dalla curiosità di sapere chi erano quelle persone con la zappa in mano a poca distanza da una delle aree più industrializzate della Brianza, ora oltrepassano il recinto con una borsa in mano per chiedere se sono già mature le zucchine o i pomodori. Durante la giornata si alternano al lavoro dei contadini, alcuni in pensione: Luciano è il direttore dell’orto e vive con Granidipepe una passione trasmessa dal padre. Da lontano osserva il lavoro di Jack, un ragazzo disabile di vent’anni con una forza sufficiente per sradicare alcuni ceppi dalla terra e una passione smisurata per i canti alpini.

Si coltivano tutte le verdure di stagione, chi arriva lascia un contributo libero e porta via una cassettina con le verdure. Il progetto dell’orto contribuisce a ravvivare un quartiere che in questi ultimi due anni ha scoperto una seconda vita.

Granidipepe 03

Queste strade hanno ospitato per decenni uno degli esperimenti più importanti in Lombardia di villaggio industriale, e cioè il Cotonificio Cederna, una storia di sviluppo urbano, sociale ed economico voluto da Antonio Cederna, nonno dello scrittore e politico ambientalista Antonio Cederna e della giornalista Camilla. All’inizio del Novecento questa zona era solo campagna, punteggiata da qualche cascina e villa padronale, qui nel 1908 Antonio Cederna, che aveva già acquistato un cotonificio a Milano, compra un terreno e costruisce una tessitura accompagnata da una filatura. Inizialmente assume circa 80 operai, nel tempo diventeranno più di 800, che arrivano da molte regioni, in gran parte dal Veneto.

Gli operai non trovano solo lavoro, ma anche le case progettate dall’azienda, e servizi essenziali, come le scuole, una cooperativa di consumo e il Convento costruito poco lontano, che comprendeva sia l’asilo che un teatro. Diventa così un esempio di villaggio industriale come Crespi d’Adda o l’Olivetti ad Ivrea, attivo per molti anni, fulcro della vita del quartiere di Monza, fino all’arrivo della crisi del cotonificio, che nonostante converta la produzione in fodere non riesce a sopravvivere.

La chiusura arriva agli inizi degli anni novanta e con essa anche il declino della zona. Da qualche anno un progetto di rivalutazione ha ricostruito nell’enorme area industriale molti spazi, mantenendo lo stile architettonico dell’antica fabbrica.
Una parte è completata, un’altra è da ultimare con l’apertura di un museo etnologico di Monza e Brianza. Un quartiere quindi che rinasce, non a caso il progetto che dà vita all’orto di Cederna si chiama Uroburo, il simbolo antico di continuo movimento, di fine e di rinascita.

  • Autore articolo
    Anna Bredice
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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale

    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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