Approfondimenti

La maledizione della crescita

La crescita è il Sacro Graal cui molti – in numero crescente – si appellano per rilanciare le magnifiche sorti e progressive del capitalismo globale.

Moderno esorcismo di cui tutti parlano e nessuno vede. In questa dimensione lo statuto epistemologico della crescita si colloca nel campo dei feticci, sconfinando talvolta nel delirio. E infatti quando i G20 s’incontrano per discuterne, escono dalle stanze del potere con un nulla di fatto, l’evanescente fantasma essendo ancora una volta sfuggito loro di mano.

Per l’intanto le diseguaglianze crescono, e simmetricamente i profitti dell’1% dei più ricchi del pianeta s’involano a altezze stratosferiche. Questo dislivello mette in moto tensioni estreme, fratture e valanghe politico sociali catastrofiche e distruttive, violenze molecolari e di massa diffuse dalle capitali occidentali alle megalopoli globali fino a deserti e giungle, migrazioni tumultuose e incontenibili. Nel mentre il cambiamento climatico s’accentua, e qualcuno parla dell’antropocene, la nostra era geologica, come epoca della/e estinzione/i.

In questa situazione, potrebbe persino tornare all’orizzonte la ribellione del 99%, o di una sua consistente parte, fino alla rivoluzione, parola che si credeva espunta ormai dal dizionario. Perciò i più avvertiti tra i capitalisti sanno che così il sistema rischia di rompersi, implodere o esplodere. E s’arrampicano sugli specchi per trovare una via d’uscita che salvi capra e cavoli, i profitti astronomici dei mercanti di danaro, armi, petrolio, esseri umani, illegalià e un certo riequilibrio che attenui le diseguaglianze e i tassi di sfruttamento, con un qualche benessere che per percolazione passi dall’1% agli strati inferiori.

Ma, siccome questo non si può fare toccando gli intoccabili profitti, bisogna invocare la crescita economica, e una crescita che abbia anche un qualche senso sociale.

Si dedica al problema della crescita Daniel Cohen, testa fina della scienza economica francese e internazionale nonché uomo di sinistra di buona lega, nel libro Le Monde est clos et le desir infimi (Albin Michel, 2015). Egli ripercorre l’idea e la pratica della crescita come nervatura fondamentale ideologico-politica – se non antropologica – ancor prima che economica, nella storia della civiltà occidentale cominciando dagli antichi Greci fino alla società industriale e al capitalismo moderno.

Andando alla radice del perché il nostro mondo è inesorabilmente finito, clos, e perché il nostro desiderio è invece infinito; una aspirazione continua individuale e sociale a superare i limiti, a travalicare le colonne d’Ercole, che è stata motore primo del progresso per la società degli umani, ovviamente non trascurando l’analisi economica coi vari cicli e crisi che si sono succedute.

Ma andiamo alle conclusioni di Cohen che si chiede: “La società moderna potrebbe fare a meno della crescita?” Per rispondere poche righe più sotto “che no”, non potrebbe. La società, tal quale è oggi, andrebbe a scatafascio senza la crescita in tutti i suoi significati. E “la crescita potrebbe ripartire?” Anche qui la risposta di Cohen è negativa: la crescita sta oltre l’orizzonte degli eventi possibili in un tempo prevedibile. I numeri che egli snocciola sono impietosi per i cantori della crescita, i cui tentativi assomigliano assai all’azione di chi pesti l’acqua in un mortaio.

Parliamo di crescita robusta, quella che servirebbe alla bisogna, non gli sparsi decimali che compaiono di tanto in tanto col segno più, mentre BCE e FED innaffiano di moneta a tasso zero le banche e i mercati con la speranza di suscitare un vento nuovo che invece ormai da otto anni non spira, arrivando al massimo di tanto in tanto un leggerissimo refolo atto a sollevare al più qualche foglia ingiallita.

Quindi senza crescita “la società occidentale è condannata alla collera e alla violenza”.

Ma allora non c’è proprio nulla da fare, nessuna via d’uscita da questa contraddizione tra una società che per vivere e svilupparsi ha bisogno della crescita e una crescita che allo stato attuale appare quanto mai improbabile?

A questo punto Cohen chiama in causa Edgar Morin, in sostanza affermando che una svolta culturale comportamentale deve essere messa in cantiere per passare dalla quantità alla qualità. “Una società può progredire in complessità, cioè in libertà, autonomia , comunità soltanto se progredisce in solidarietà. La politica di civilizzazione deve mirare a restaurare le solidarietà, a riumanizzare le città, a rivitalizzare le campagne (..) e bisogna rovesciare l’egemonia del quantitativo a favore del qualitativo, privilegiando la qualità di vita (..) Una rigenerazione del pensiero politico deve fondarsi su una concezione trinitaria dell’umano: individuo, società, specie”.

Questo in una visione illuminata e ottimista, e in un quadro di pace. Perché come è noto uno dei modi per la soluzione delle crisi, e il rilancio della crescita, è la guerra. Non per caso la seconda guerra mondiale fu, tra l’altro, la risposta alla grande crisi del ’29. E dopo ci furono quelli che in Francia vengono definiti “i trenta gloriosi”, i trent’anni di crescita nell’intero Occidente ben più che robusta, si pensi al miracolo economico italico degli anni Sessanta.

Non a caso adesso siamo nel pieno della “terza guerra mondiale a pezzetti”, che potrebbe trasformarsi in una guerra globale proprio per praticare quella distruzione di beni talmente massiva da imporre poi un piano globale di ricostruzione materiale e sociale come vettore della crescita tanto agognata.

Una prospettiva terribile ma non così lontana come si potrebbe credere.

La distruzione dell’intera Mesopotamia per un verso e le bombe atomiche fatte esplodere dalla Corea del Nord per l’altro stanno lì a testimoniarlo, così come i continui attriti tra le tre grandi super potenze Cina, Russia e USA; seppure ogni tanto mitigati da accordi, come quello recente, tra Russia e USA per la tregua in Siria.

Ma c’è un altro versante su cui riflettere per pensare “ la crescita”, ovvero la riconversione ecologica a livello mondiale necessaria per fare i conti col cambiamento climatico. Una sorta di missione comune degli umani per salvare il pianeta e la nostra civiltà in fratellanza e solidarietà, con scienza e democrazia.

Una missione che ha molti e potentissimi nemici, però non è disperata. Per ora.

  • Autore articolo
    Bruno Giorgini
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    C’è un tesoro in Italia, ambito da sempre, ed è il tesoro delle Assicurazioni Generali. Chi comanda a Trieste, comanda su un pezzo importante del paese. Per 70 anni il tesoro delle Generali è stato controllato da Mediobanca, che una volta era il salotto del capitalismo familiare italiano e oggi è una solida banca milanese. Nell’ultimo anno, grosso modo, due capitalisti nostrani, non si sa se anche coraggiosi, Francesco Gaetano Caltagirone, insieme a Francesco Milleri, hanno portato a termine il colpo del secolo: con un’operazione di scambio di azioni – e con il concorso esterno del MPS, fino a qualche mese fa banca di stato - hanno cacciato i vecchi azionisti dagli uffici di piazzetta Cuccia a Milano (Mediobanca) e al loro posto ci hanno messo se stessi più alcuni amici. In questo modo l’immobiliarista e editore Caltagirone, insiene al socio un po’ litigioso degli eredi Luxottica, hanno preso il controllo di Mediobanca. E lo hanno fatto con l’aiuto del MPS, banca pubblica privatizzanda. Preso il controllo di Mediobanca, i “nostri” Caltagirone&Soci hanno cominciato a vedere terra, la costa triestina, la casa mitteleuropea di Generali. Ora, su tutta questa operazione – sommariamente sintetizzata – qualcosa non ha funzionato. La Procura di Milano sta indagando per il mancato rispetto di alcune importanti formalità da codice penale: il “concerto” non previsto, il rispetto del “mercato” e delle autorità di controllo. Aspettiamo fiduciosi che la giustizia faccia il suo corso, mentre la politica rivendica i suoi meriti, giusti o sbagliati che siano. Pubblica oggi ha ospitato il giornalista e saggista Vittorio Malagutti (Domani) e il senatore del Pd Antonio Misiani.

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