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“La ferrovia sotterranea” di Whitehead diventa una miniserie tv

La prima cosa a cui molti ancora pensano quando sentono parlare del film Moonlight è il pasticcio accaduto alla fine della Notte degli Oscar 2017: Warren Beatty e Faye Dunaway, sul palco per consegnare il più atteso e ambito premio della serata, quello per il miglior film dell’anno, si passano imbarazzati una busta (che poi si scoprirà essere quella sbagliata) e alla fine annunciano La La Land; i cui produttori, regista e cast si precipitano felici sul palco e iniziano a pronunciare i ringraziamenti di rito, solo per essere presto interrotti dai responsabili dell’Academy, che mostrano loro la busta giusta, e così uno dei produttori di La La Land, nell’imbarazzo e nello sgomento generale, esclama: “C’è stato un errore! Il vincitore è Moonlight!” Non sto scherzando,ragazzi, venite a ritirare il vostro Oscar!”. Il regista di Moonlight è Barry Jenkins, nato a Miami nel 1979; all’epoca, era solo il quarto filmmaker nero della Storia ad aver ricevuto una nomination per la miglior regia (prima di lui, John Singleton, Lee Daniels, Steve McQueen; dopo di lui, Jordan Peele e Spike Lee; per la cronaca: a oggi nessun regista nero ha mai vinto quel particolare riconoscimento), ed è diventato il secondo a dirigere un titolo premiato come miglior film (prima di lui, Steve McQueen per 12 anni schiavo). Qualcuno, all’epoca di quegli Oscar, fece notare che, per quanto
a suo modo divertente, la confusione delle buste e degli annunci aveva privato di un vero ed emozionante momento di trionfo una vittoria a suo modo storica: Moonlight è un film piccolo e indipendente, molto diverso dai grossi film degli studios che spesso trionfano agli Oscar; adattando una pièce semiautobiografica, racconta una storia intima, quella di Chiron, ripreso in tre fasi della propria vita (l’infanzia, l’adolescenza, la giovinezza), e della scoperta della sua omosessualità, in un contesto difficile e ostile, un quartiere povero di Miami (la città natale di Jenkins, tra l’altro).

Prima ancora di quella notte cruciale, già nei primi mesi del 2017, Jenkins e il suo team avevano opzionato i diritti di adattamento di La ferrovia sotterranea, il celebrato romanzo di Colson Whitehead vincitore del Premio Pulitzer e del National Book Award (pubblicato in Italia da Sur); dopo Moonlight, Jenkins ha realizzato un altro film, Se la strada potesse parlare, tratto da un romanzo del grande scrittore afroamericano James Baldwin, ma non ha smesso di lavorare a La ferrovia sotterranea, che ora, dal 14 maggio, approda finalmente su Amazon Prime Video come miniserie in dieci episodi. Una gestazione lunga ma perfettamente comprensibile per un racconto così complesso e stratificato.

La ferrovia sotterranea – o, in originale The Underground Railroad – nasce dall’intuizione dello scrittore di rendere letterale l’espressione che gli abolizionisti del primo Ottocento e poi gli storici hanno usato per descrivere la rete di scorciatoie, strade segrete e case sicure utilizzata dagli schiavi, prima della Guerra di Secessione, per fuggire dagli stati del sud a quelli del nord, o in Canada. Nel romanzo di Whitehead, e nella serie interamente diretta (e in parte anche scritta) da Jenkins, la underground railroad diventa una vera ferrovia, fatta di binari e convogli sferraglianti, che scorre davvero sottoterra: la protagonista Cora, in fuga da una piantagione della Georgia, vi si imbarca per un viaggio che attraverserà tutta l’America, facendole scoprire da un lato nuove sfumature di libertà e dall’altro nuove esperienze del razzismo sistemico su cui la nazione è stata fondata. Si tratta di un romanzo complesso, che mescola il realismo magico alla fantascienza speculativa e distopica, per nulla semplice da portare su schermo: Jenkins ha coinvolto i collaboratori che l’hanno accompagnato nei suoi due film precedenti, cioè il direttore della fotografia James Laxton e il compositore Nicholas Britell. Il risultato è una serie ipnotica e a tratti visionaria, sicuramente non sempre semplice da guardare a causa delle crudeltà che mostra, ma in grado di evocare immagini potenti e liriche – anche di speranza – e di coinvolgere anche grazie all’immersivo lavoro sul sonoro. Cora è interpretata dall’attrice sudafricana Thusu Mbedu, alla prima esperienza internazionale, mentre a inseguirla c’è l’attore australiano Joel Edgerton nelle vesti di un temibile cacciatore di schiavi.

Ma, proprio come in Moonlight e Se la strada potesse parlare, anche quello di Cora è un viaggio intimo, attraverso il quale deve riconciliare la propria identità
frammentata da un sistema oppressivo e disumano. Chissà che dopo gli Oscar, Jenkins non conquisti anche gli Emmy – naturalmente gli auguriamo, nel caso, di non incorrere in nessun pasticcio e di godersi il meritato trionfo.

  • Autore articolo
    Alice Cucchetti
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    Un percorso attraverso la stratificazione sociale italiana, un viaggio nell’ascensore sociale del Belpaese, spesso rotto da anni e in attesa di manutenzione, che parte dal sottoscala con l’ambizione di arrivare al roof top con l’obiettivo dichiarato di trovare scorciatoie per entrare nelle stanze del lusso più sfrenato e dell’abbienza. Ma anche uno spazio per arricchirsi culturalmente e sfondare le porte dei salotti buoni, per sdraiarci sui loro divani e mettere i piedi sul tavolo. A cura di Alessandro Diegoli e Disma Pestalozza

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