Approfondimenti

La città dei femminicidi

Teresa Margolles Ya Basta hijos de puta

Ciudad Juaréz è una città di frontiera tra Messico e Stati Uniti dove fin dagli anni Novanta si manifestano nel modo più cruento i frutti del matrimonio fra economia neoliberista e cultura patriarcale. È conosciuta nel mondo per la lunga sequenza di donne sequestrate, violentate, torturate con estrema crudeltà, uccise e ritrovate intere o a pezzi nei dintorni della città. Molte donne denunciate come scomparse non sono mai state ritrovate ed è difficile stabilire il numero delle vittime, che oscilla tra le decine e le centinaia. Ma oggi Ciudad Juaréz è tutto il Messico e nessuna città può essere considerata sicura per le donne. A questo luogo esemplare è dedicata la mostra di Teresa Margolles al Pac di Milano fino al 20 maggio http://www.pacmilano.it/exhibitions/teresa-margolles/.

Da qualche anno la parola ‘femminicidio’ è entrata anche nel nostro vocabolario, con vent’anni di ritardo rispetto al contesto internazionale e in un’accezione impropria del termine. La categoria politica di femminicidio nasce in Messico e a partire da Ciudad Juaréz. Vista dal Messico, l’Italia è un paese arretrato quanto a legislazione e metodologia di ricerca sulla violenza di genere. Le opere di Teresa Margolles, artista messicana, sono un’occasione per allargare lo sguardo oltre i nostri confini, non solo geografici ma anche intellettuali e politici. Lo faremo nel corso di una visita guidata martedì 24 aprile.

Degli strumenti legislativi e politici messi a punto in Messico e dell’esperienza organizzativa dell’America latina, in Italia poco si sa. Eppure il femminicidio è realtà anche nostra e non solo nella accezione ristretta di femmicidio. Solo negli ultimi giorni sono state uccise tre donne: a colpi di pistola Valeria Bufo, a Boviso Masciago vicino a Monza (19 aprile); Monika Gruber uccisa a coltellate a Bressanone, vicino a Bolzano (20 aprile); Maria Cristina Olivi, il cui corpo carbonizzato è stato ritrovato nei pressi di Roma. La violenza economica colpisce anche da noi, sempre di più, e in modo selettivo per genere: dei 4 milioni e 742 mila persone sotto la soglia di povertà, quasi l’8 per cento della popolazione, la maggioranza sono donne. L’85% delle famiglie monoparentali in condizione di povertà assoluta ha come persona di riferimento una donna e più di una donna straniera su quattro è in condizione di povertà assoluta (26,6%) (dati Istat 2016). Sono femminicidi anche casi come quello della diciottenne di Vicenza che finisce in ospedale per aborto-fai-da-te con il Cytotec, ed era la quarta volta che lo faceva (condannata per procurato aborto a 15 giorni di reclusione, con pena sospesa).

Dal 1993, anno in cui la giornalista e attivista femminista Esther Chavez Cano ha iniziato a scrivere di ‘femminicidi’ per gli assassinii di Ciudad Juaréz e la accademica femminista Julia Monarrez Fragoso ad analizzare in profondità il fenomeno, le femministe messicane hanno avuto non solo la capacità di leggere la violenza sulle donne come elemento che struttura la società e permea i rapporti tra le persone, ma anche di portare questa prospettiva dentro ai gangli istituzionali. Giornaliste, accademiche e attiviste hanno sviluppato un metodo scientifico di ricerca e analisi con il quale mettere in rapporto la violenza femminicida con una serie di fattori quali le caratteristiche socio-economiche del territorio dove si sviluppa, il tipo di violenza esercitata, qualità ed esiti delle indagini di polizia, e che si avvale di procedure strutturate di raccolta dati attraverso una molteplicità di canali.

In questo processo ha avuto un ruolo chiave la categoria di femminicidio, che va distinta da femicidio. «Con la parola “femminicidio” non si sottolineava solo il “femmicidio”, ossia l’omicidio di donne, ma la relazione diretta tra i cambiamenti strutturali di una società, il maschilismo che la domina, le disuguaglianze sociali e il grado di violenza che in quella stessa società si genera. La violenza contro le donne veniva così definita come universale e strutturale, fondata su sistemi patriarcali di dominio presenti in quasi tutte le società del mondo occidentale. La morte era la forma estrema di questa violenza, conseguenza di un modello culturale appreso e trasmesso attraverso le generazioni». Lo spiega Emanuela Borzacchiello, ricercatrice femminista, in un articolo che chiarisce il significato di questa parola ed indica le autrici di riferimento. Marcela Lagarde, in particolare, che ha saputo utilizzare il suo ruolo di parlamentare e di accademica per stringere alleanze coi movimenti e con la società civile in vista dell’obiettivo comune.

Femminicidio sta dunque ad indicare le molte forme di discriminazione o violenza che impediscono alle donne di godere dei diritti fondamentali alla vita, alla salute, al lavoro, all’accesso alle cariche pubbliche ecc. solo perché donne. L’impunità degli autori di violenza e l’indifferenza dello Stato sono un elemento chiave del femminicidio, così come la responsabilità dei mezzi di comunicazione nel dare continuità e legittimazione a queste forme, normalizzando e minimizzando la violenza femminicida – in Messico come in Italia.

Visto in questa luce, quello di Ciudad Juaréz non è un caso isolato e strano, ma un caso in cui si mostra in forma estrema la reificazione del corpo femminile, la riduzione della donna a cosa di proprietà di del genere dominante. Nella lettura dell’antropologa Rita Laura Segato, Ciudad Juaréz è il «luogo emblematico della sofferenza delle donne». Il messaggio di Segato è che dobbiamo smettere di vedere la violenza in modo orizzontale dell’assassino contro la vittima, ma dobbiamo vederla in modo orizzontale come azione dell’assassino verso i suoi pari, ovvero quando un uomo uccide sta inviando un messaggio di affermazione di potere ai suoi pari, agli altri uomini e alla comunità dove vive.

Teresa Margolles Ya basta hijos de puta - Pac
photo Nico Covre – Volcano

Oggi le metodologie elaborate a partire dalle differenze di ogni territorio per analizzare la violenza femminicida in Messico sono tra le più precise al mondo, mentre nel Paese la violenza diventa sempre più diffusa e quel che è stato sperimentato sui corpi delle maquiladoras viene esteso ad altri soggetti. La richiesta di giustizia e diritti ha scatenato la reazione ancora più violenta da parte di chi li infrange, trafficanti di droga e di prostituzione collusi con polizia ed esercito, come scrive Emanuela Borzacchiello sulla rivista spagnola Diagonal: «un lavoratore può sparire, così come uno studente, una donna che vive in periferia o una Juarense di classe. Ci sono sempre più casi di partecipanti di organizzazioni non governative minacciate, giornalisti torturati, donne che nella loro vita quotidiana hanno deciso di combattere l’impunità e che improvvisamente sono scomparse. Contro la scomparsa dei corpi e la decomposizione del tessuto sociale, le donne rispondono rendendo visibile la violenza».

Dei 400 milioni di dollari stanziati per la lotta al narcotraffico nell’ambito del piano Usa-Messico Plan México, non una goccia è arrivata alle organizzazioni per i diritti umani, a fronte di una militarizzazione sempre più estesa e programmi di bonifica del territorio come quello che ha raso al suolo il quartiere dove lavoravano le donne transessuali fotografate da Teresa Margolles, in mostra al Pac. Sempre Emanuela Borzzacchiello scrive che «La militarizzazione del territorio imposta dai due governi per combattere il narcotraffico ha aumentato la violenza del 200%» e che «il Messico si è trasformato in un laboratorio sperimentale della violenza. Un laboratorio i cui meccanismi potrebbero replicarsi in qualsiasi paese, con maggiore o minore intensità» (Osservatoriodiritti).

Perché le università italiane non invitano le colleghe messicane per insegnare i metodi che hanno messo a punto? Questi metodi potrebbero funzionare da modello anche da noi, dove attiviste, giornaliste, istituzionali e accademiche procedono a compartimenti stagni, pur condividendo l’obiettivo comune di contrastare la violenza maschile sulle donne.

Eleonora Cirant — documentalista all’Unione femminile nazionale, giornalista e attivista.

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    Eleonora Cirant
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    Il 9 settembre, dopo 14 anni di lavori, l’Etiopia ha inaugurato ufficialmente la Gerd, la Grand Ethiopian Renaissance Dam, il più grande progetto idroelettrico d'Africa, e tra i 20 più grandi al mondo. Da anni la diga è anche causa di tensione con i paesi a valle del Nilo: Sudan e soprattutto Egitto, che temono di vedere ridotte le proprie risorse idriche, anche in considerazione dei sempre più frequenti periodi di siccità. “Questa diga sarà certamente uno degli epicentri di tensione di questa regione nel prossimo futuro” spiega Luca Puddu, docente di storia dell’Africa all'Università di Palermo, al microfono di Sara Milanese. Ascolta l’intervista andata in onda in A come Africa.

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