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Il rovescio della libertà

«Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro del neoliberalismo. Ma nessuna potenza della vecchia Europa si è ancora coalizzata in una sacra caccia alle streghe contro questo spettro». Forse oggi Marx inizierebbe così una delle sue invettive contro «lo stato delle cose presenti». E sebbene per il filosofo tedesco lo spettro fosse ben altro, non serve qui ricordare quale, pensare al neoliberalismo come a una delle entità più inquietanti del nostro tempo non è affatto insensato.

C’è stata un’epoca dove il neoliberalismo non sembrava così terribile e, anzi, veniva trattato alla stregua di una religione, con tutto il suo carico di adorazione, liturgia e grandi speranze. Margaret Thatcher, infatti, solo qualche decennio fa annunciava il trionfo del pensiero neoliberale ricorrendo al celebre slogan “There Is No Alternative”. Non c’è alternativa, non c’è soluzione migliore all’economia di mercato. Nulla, ripeteva la Thatcher, era in grado di rimpiazzare il sistema di libero scambio delle merci che da solo era in grado di assicurare benessere e stabilità agli ordinamenti politici nazionali. Molti finirono per fidarsi e ritenere queste parole una sacrosanta verità. Dopo meno di cinquant’anni, però, il neoliberalismo pare aver esaurito la sua aura di santità ed è finito a mostrare un volto ben più reale fatto di crisi, precarietà, sfruttamento e povertà. A nulla sono servite le analisi e gli appelli di illustri economisti che già in passato mettevano in guardia o davano per certa la fine di questo sistema economico. A nulla servono oggi i consigli dei più ottimisti che ancora offrono formule capaci di oliare la grande macchina neoliberale così da ripartire, pardon, “tornare a crescere” a tutto spiano.

Un recente saggio di Massimo De Carolis, dal titolo Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, consente di affrontare l’intera questione attraverso una prospettiva inedita e più interessante. Non si tratta dell’ennesimo volume di economia che analizza la delicata situazione odierna, ma è un libro che parla di filosofia. È cioè un testo dove la filosofia torna a essere «il proprio tempo appreso col pensiero», come si augurava Hegel, e che permette di inquadrare il neoliberalismo non più come un modello di gestione delle merci, ma come un sistema antropologico. In altri termini, propone De Carolis, il neoliberismo andrebbe inteso come un “meccanismo di civilizzazione” che voleva operare una trasformazione radicale nel nostro modo di agire e interagire. Intendeva cioè istituire una precisa “politica della vita” tale da creare una struttura sociale diversa e più efficace. Tutto questo intervenendo attraverso le logiche del mercato, vale a dire attraverso la valorizzazione dello scambio in regime di concorrenza. Secondo i teorici del neoliberalismo, solo grazie alle dinamiche del mercato l’azione e la cooperazione degli individui si sarebbero potute ottimizzare così da gettare le basi per una società più dinamica nelle relazioni, autoregolata nelle forme di produzione e distribuzione dei beni, e finalmente libera dai rapporti di potere tipici dell’età moderna.

Ora, è innegabile che le trasformazioni innescate dal neoliberalismo siano avvenute e mai nella storia siano state tanto rapide e radicali. Allo stesso tempo, però, gli esiti di queste trasformazioni sono stati ben lontani dalle intenzioni iniziali di quei pensatori che vedevano nel neoliberalismo una cura ai mali del mondo. E per comprendere le ragioni di questo insuccesso è necessario, secondo De Carolis, considerare il fallimento del neoliberalismo come la disfatta di un progetto antropologico. Una sconfitta determinata dall’impossibilità di poter sviluppare e migliorare le condizioni di vita attraverso le sole dinamiche del mercato. E così, le mutazioni sociali che il neoliberalismo ha generato hanno assunto i connotati di un rovescio della libertà prospettata, vale a dire un ribaltamento degli obiettivi di partenza che non ha favorito la collettività, ma ha privilegiato «pochi grandi soggetti egemoni, dotati di consistente potere di mercato e in grado perciò di controllare la gran parte delle potenzialità e delle risorse».

Spieghiamo meglio cosa intende l’autore col ritenere il neoliberalismo un dispositivo antropologico. Per fare questo occorre tornare ai padri fondatori del pensiero neoliberale, in particolare ai tedeschi Walter Eucken, Alexander Rüstow, Wilhelm Röpke e agli austriaci Ludwig von Mises e Friedrich von Hayek che, nei primi decenni del ventesimo secolo, avevano proposto un’innovativa visione delle potenzialità umane. I pensatori neoliberali vedevano nello scambio mercantile in regime di concorrenza il modello ottimale per ogni scambio sociale. L’idea di fondo era che «governare la società non potesse che significare, in un modo o nell’altro, organizzare le strutture in modo da adattarle all’ordine spontaneo del mercato». Tuttavia, per generare questo “governo del mercato” era necessario che lo scambio delle merci diventasse una pratica diffusa, condivisa, ma soprattutto libera a ogni livello, individuale e collettivo. In realtà, le formule pratiche per garantire tali modalità di scambio erano diverse e persino in contrasto fra loro: per gli ordoliberali tedeschi era lo stato a dover intervenire attraverso una scrupolosa opera di regolazione del marcato, mentre per i neoliberali austriaci ogni forma di ingerenza statale andava fortemente limitata o addirittura abolita. Ad ogni modo, la proposta era chiara: ottimizzare lo scambio attraverso il mercato doveva essere l’unica via per rafforzare la capacità cooperativa dell’uomo e dell’intera società. Solo le ferree logiche del mercato, infatti, potevano creare un “ordine spontaneo” dove l’agire dell’uomo trovava modo di coordinarsi, ottimizzarsi e potenziarsi in maniera completa. E non a caso, per von Mises e von Hayek, la piena realizzazione del progetto neoliberale doveva coincidere con la “catallassi” (dal verbo greco katallasso che significa “scambiare”, “barattare”, ma anche “riconciliare”), cioè quella condizione ideale dove la vita e il mercato arrivano a coincidere in maniera perfetta.

Il progetto della “catallassi” proponeva in teoria qualcosa di inedito: il mercato doveva diventare il modello attraverso il quale strutturare l’attività umana in modo tale che ogni comunità si sarebbe regolata dall’interno, in maniera autonoma, grazie alla libera iniziativa e all’interazione spontanea degli agenti economici. Con la “politica della vita” neoliberale si pensava persino di risolvere lo stato di perenne conflitto nel quale gli individui si trovano per natura e andare oltre i classici modelli di organizzazione politica basati su gerarchie e relazioni di potere. Questo perché, tramite il mercato, «i potenziali nemici [sarebbero stati] spinti a trasformarsi in concorrenti, nella misura esatta in cui il desiderio virtualmente conflittuale di prevalere sugli altri è sopravanzato dal comune interesse a garantire in ogni caso la riproduzione dell’ordine convenzionale, su cui poggiano le aspettative e le speranze di tutti».

Queste in sintesi erano le formule neoliberali utili alla risoluzione dei complicati processi sociali. La realtà dei fatti, però, si è rivelata ben altra e ha mostrato quanto mal fondate fossero tali prospettive teoriche. Il mercato, infatti, si è reso un generatore di squilibri che non ha portato alcun beneficio al “sistema mondo”, determinando invece tutte quelle forme di monopolizzazione dell’economia e di privatizzazione della politica che oggi sono sotto gli occhi di tutti.

Ma cosa è andato storto? Com’è stato possibile che il neoliberalismo abbia innescato quei fenomeni di rifeudalizzazione dei rapporti sociali che voleva eliminare?

Lo sbaglio è stato pensare che l’essere umano potesse automaticamente emanciparsi da ogni forma di potere attraverso la libera concorrenza e il libero mercato. Il neoliberalismo ha dunque fallito nell’illusione di poter fare a meno della decisione politica sostituendola col calcolo dell’utile, col do ut des, con la concorrenza perfetta e lo scambio ottimale. Aver esautorato la politica non ha reso il mondo un posto libero da vincoli e relazioni di forza, ma ha spostato l’asse del potere verso i grandi monopoli dell’economia che, resi autonomi, sono in grado di sfruttare la forza politica per imporre a tutti precise scelte e modalità produttive. Il risultato è che «quanto più a fondo i dispositivi di calcolo penetrano nella vita sociale, tanto più questa “vita” è messa al servizio delle relazioni di potere, la creatività è sottomessa al controllo e l’intelligenza è svuotata e trasformata in mera tecnica amministrativa».

Per invertire la tendenza degli ultimi decenni e interrompere la spirale perversa nella quale siamo finiti serve quindi ripartire da un’analisi globale dei fattori che ci hanno condotto a questo preciso momento storico. Diventa necessario comprendere appieno le intuizioni ma anche gli abbagli di quei pensatori neoliberali che hanno contribuito a determinare l’intricato sistema economico-sociale nel quale viviamo. E il libro di De Carolis ci offre la sua preziosa guida proprio in questo.

 

Massimo De Carolis

Il rovescio della libertà. Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà.

Quodlibet, 2017, 304 pagine

 

 

  • Autore articolo
    Marco Guagni
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