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Cina, il dilemma ISIS

Non-intervento o rappresaglia?

È un bel dilemma per la Cina, dopo l’uccisione da parte dell’Isis di Fan Jinghui, 50 anni, il primo cinese fatto prigioniero e giustiziato dallo Stato Islamico.

Precedentemente, al G20 turco di Antalya, la Cina aveva condannato le stragi di Parigi ma anche criticato i “doppi standard” quando si parla di terrorismo.

Il riferimento è a come si pongono Stati Uniti ed Europa rispetto al conflitto a bassa intensità in Xinjiang. In Occidente è diffusa l’idea che Pechino cavalchi l’allarme terrorismo per regolare conti a casa sua. In Cina, si crede che per l’Occidente il terrorismo sia solo quello colpisce Europa o Stati Uniti.

Ora, dopo l’omicidio del cinquantenne di Pechino, il presidente Xi Jinping condanna l’Isis e chiama alla cooperazione internazionale nella lotta contro la Jihad. “I terroristi sono il nemico comune dell’umanità”, ha detto Xi in una dichiarazione scritta durante il vertice Apec di Manila, e ha parlato di “fronte comune con la comunità internazionale”. Il premier Li Keqiang ha ribadito che Pechino fa tutto il possibile per salvaguardare i cinesi all’estero e ha lasciato intendere che sono stati effettuati dei tentativi per riscattare l’ostaggio cinese assassinato. Il ministero degli Esteri promette che i colpevoli saranno consegnati alla giustizia.

Sì, ma come?

Sulla politica di non-intervento all’estero, Pechino ha costruito successi commerciali e anche un’alternativa diplomatica all’eccezionalismo Usa. È una scelta politica, quasi culturale, ma anche molto pragmatica: l’Esercito Popolare di Liberazione – al centro di un processo di ristrutturazione e snellimento e bastonato dalla campagna anticorruzione – non è considerato pronto per avventure all’estero. Tuttavia con l’assassinio di Fang anche la Cina è direttamente tirata per i capelli nel conflitto contro lo Stato Islamico e l’assalto all’hotel in Mali, in cui c’erano anche dei cinesi, lo conferma.

Oggi, si parla esplicitamente di guerra contro l’Isis.

Il dilemma intervento-non intervento coinvolge la società presa nel suo insieme e i cinesi qualunque commentano in rete e nella vita reale. Dopo la conferma dell’assassinio del connazionale, nei social media un’ondata di critiche si è riversata verso una leadership che non impugna le armi e non va a punire lo Stato Islamico direttamente in Siria. Sono circolate parole pesanti, c’è chi ha parlato di vigliaccheria e di governo addirittura “storpio”.

Ma oggi qualcuno prospetta soluzioni differenti. Sulla piattaforma online Guancha, che significa “l’osservatore” ed è vicina al governo, c’è per esempio chi sostiene che armarsi e partire significherebbe cadere nella trappola dell’Isis, che gioca proprio sull’amplificazione del conflitto per creare divisioni all’interno dei Paesi che l’attaccano. E la Cina, così grande e complessa al suo interno, può lacerarsi. Il pensiero corre immediatamente alle minoranze islamiche, soprattutto agli uiguri dello Xinjiang.

C’è però fiducia che la Cina sia in grado di evitare tale trappola, si legge. E questo perché, in primo luogo, il Paese ha una lunga storia di integrazione multi-etnica e una concezione filosofica diffusa del molteplice-che-si-fa-uno. In secondo luogo, perdurerebbe la tradizionale visione confuciana del “giusto mezzo”, che significa tenersi sempre alla larga dalla radicalizzazione, sia in materia religiosa sia in qualsiasi tipo di pensiero. In terzo luogo, in Cina è diffusa una cultura dello sviluppo graduale che è diametralmente opposta alla dottrina anti-moderna del fondamentalismo islamico.

Chiamiamolo pragmatismo cinese, che trova conferma in un articolo di taglio economico del Lianhe Zaobao di Singapore, che parte dal presupposto che la Cina non sia in grado di mandare truppe all’estero e sostiene che la cosa più saggia da fare sia fornire prestiti a bassi o addirittura zero interessi agli alleati – soprattutto agli Stati Uniti – in modo da ridurre l’impatto negativo che una guerra può esercitare sulle loro economie.

La Cina potrà partecipare direttamente alle azioni di peace-keeping, ma solo in un secondo momento.

Molti, in Cina, criticano le politiche statunitensi in Medio Oriente e non vogliono che Washington metta il naso nei mari vicini a casa. Ma, quando si tratta di sicurezza dei propri investimenti e dei connazionali in giro per il mondo, si è disposti anche a pagare purché gli americani facciano il lavoro sporco.

  • Autore articolo
    Gabriele Battaglia
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    “Ho sempre pensato che quella di Aldo, Giovanni e Giacomo fosse una favola. La loro vita artistica, che io ho seguito come assistente alla regia nei film di Massimo Venier, è sempre stata caratterizzata da rifiuti e invece hanno fatto di tutto e con grande successo, grazie alla loro determinazione”. E’ per questo motivo che Sophie Chiarello, già regista di “Il Cerchio”, ha voluto esplorare le vite del trio a partire dalla loro infanzia. “Erano tre ragazzini un po' 'sfigati' – come si autodefiniscono - che per provenienza sociale avevano un destino già scritto”. Sono loro a raccontarsi, a sfogliare le foto dell’infanzia e a percorrere la Milano di una volta, proletaria e in bianco e nero. Un ritratto personale, divertente, con le voci di chi li ha accompagnati in tutti questi anni da Paolo Rossi, Marina Massironi, alla Gialappa’s Band. “Attitudini: nessuna” è stato realizzato in diversi momenti con un percorso frammentato che punteggia la carriera artistica del trio tra cabaret, teatro, cinema e televisione. Ascolta l'intervista di Barbara Sorrentini a Sophie Chiarello, regista di “Attitudini: nessuna”.

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