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Bresso da focolaio COVID a pochi casi

Bresso Reportage

Nell’aula del consiglio comunale di Bresso, tanto in stile anni ’70, ci sono dieci donne che imbustano mascherine. Sono le educatrici degli asili nido e qualche impiegata comunale che da mesi si sono riconvertite in task force COVID che ha significato di tutto: telefonare a casa dei cittadini sintomatici, coordinare quarantene e consegne di pacchi alimentari e medicine, con la protezione civile e la croce rossa, occuparsi dei servizi a distanza e dei pochi in presenza, fino alle buste con le 56mila mascherine arrivate giusto ieri dalla protezione civile e che saranno distribuite a tutti i cittadini.

Siamo a Bresso, prima cintura Nord di Milano, tra Novate e Sesto San Giovanni, città operaia sorta come un fungo tra gli anni ’60 e ‘70, fatta da migliaia di immigrati dal meridione e di edilizia privata disordinata. È la città focolaio della provincia di Milano, quella che per prima ha scoperto la rapidità di diffusione del Covid negli ultimi giorni di febbraio.

Il come ce lo racconta il sindaco, Simone Cairo, cinquantenne, ingegnere gestionale che ha lavorato nel marketing di grandi gruppi, eletto con il centrodestra a spinta leghista, ma più vicino al mondo di Comunione e liberazione; prima di questa epidemia aveva dovuto fronteggiarne un’altra di salmonella nell’agosto del 2018, con 53 ammalati e cinque morti, e in qualche modo è servita come esperimento.

I due elementi caratteristici del territorio, geograficamente sono la densità e l’anzianità della popolazione – ci spiega dalla sua scrivania – abbiamo oltre 7.700 abitanti per km/quadrato, siamo la città più densamente abitata della Lombardia, nemmeno Milano, e poi un terzo della popolazione over 65. Ma la spiegazione che mi sono dato del perché Bresso è sicuramente anche la fatalità“.

Il 28 febbraio un cittadino segnala al sindaco che un bar, proprio nelle vicinanze del Comune, ha chiuso per malattia. E al sindaco scatta la campanella in testa: “Meglio attivarsi. Cominciamo a telefonare per ricostruire le informazioni. Chiamando i cittadini e soprattutto i medici di base”. Il sindaco fa il collettore di una rete con tanto di chat che comprende dalle forze di polizia al farmacista. I medici di famiglia cominciano a chiamare i loro assistiti e a scambiarsi informazioni. Ma la conferma del paziente 1 per la città, arriva subito. È un milanese del vicino quartiere di Niguarda che andava a giocare al Circolo dopolavoro Libertas, frequentato soprattutto il pomeriggio da un folto gruppo di anziani, soprattutto uomini, molto attivi sul territorio, anche nel volontariato, è già ricoverato e diagnosticato. Adesso bisogna tracciare tutti i suoi contatti. Il sindaco comincia a produrre un file excel con tutti i contatti, le informazioni per ciascuna persona, raccolte dai parenti, dai medici di base.

E qui cambia tutto perché nel giro di 4-5 giorni emergono grazie al coordinamento con i medici e via via tutte le realtà che coinvolgiamo, croce rossa, protezione civile, vigili urbani e gli stessi dipendenti comunali, un numero elevato di casi”. I due baristi del circolo, tanti frequentatori – ne moriranno venti – che poi si spostavano in altri bar e facevano anche volontariato nel centro per disabili. Beffarda e tragica situazione.

Gran parte dei luoghi sotto stretta osservazione sono accanto al Municipio, i due bar, il Caf, il centro sociale per anziani (che chiuderà subito), la chiesa centrale con l’oratorio e il container per il riciclo dei vestiti, il banco alimentare.

Arriva la prima chiusura decisa dal Dpcm del 8 marzo e l’auto dei vigili urbani, sempre attivi sul territorio, gira nelle strade ad intimare ai cittadini di non uscire di casa. In tre settimane i casi diventano più di 250 certificati e arriveranno a segnalare nel database di monitoraggio dei medici di base fino a un migliaio di sintomatici. Quanti di questi siano poi diventati COVID o risultati negativi non si sa, perché i tamponi tardano sempre, sono nel frattempo cambiate più volte le disposizioni regionali e una campagna sierologica non c’è per la cittadina. Il sindaco non la chiede. “Io non faccio polemiche”.

Qualche difficoltà e polemica, però c’è sempre, ad esempio tra il sindaco che vuole un presidio dei dipendenti comunali in presenza e i sindacati. Poi ci sono stati i classici casi limite come l’anziana 94enne guarita dal COVID e completamente sola: dove metterla? E poi i morti: 66 accertati per COVID, ma più di 100 quelli registrati nell’anagrafe (con un amento superiore al 100%). Non è andato tutto bene. Ma il contagio si è ridotto e negli ultimi due mesi i nuovi casi di Covid si sono ridotti a 40.
Gli ultimi riguardano soprattutto personale sanitario dell’ospedale Niguarda positivi prima al test sierologico e poi tamponati nella campagna di screening delle ultime settimane.

E poi c’è la Rsa Luigi Strada, gestita da un ente morale di carattere religioso, che con la campagna di tamponi regionali si scoprirà a metà aprile avere il 70% degli ospiti positivi al Covid e 21 morti.
Le opposizioni di centrosinistra che qui hanno governato per 20 anni con Pd, Sinistra unita bressese e una lista civica, accusano il sindaco di aver fatto tutto da solo, un consiglio comunale in presenza il 5 marzo, in pieno focolaio e un altro solo il 26 maggio in videoconferenza.

Il Comune è chiuso, i servizi territoriali dell’Asl pure – ci dice Patrizia Manni, consigliera comunale e segretaria del Pd locale – non sappiamo cosa ne sarà dei bambini per l’estate e nemmeno per le scuole a settembre, è un muro di gomma, non risponde alla nostre interpellanze. Eppure poteva chiudere tutto subito nei primi giorni e invece ha aspettato il Dpcm del governo che poi ha significato l’11 marzo per chiudere i bar dove andavano gli stessi anziani del circolo Libertas”.

La cosa che fa più arrabbiare le opposizioni è che il sindaco non abbia firmato la lettera dei 105 sindaci di Città metropolitana, molti di centrodestra, che chiedevano tamponi, test e vigilanza sul territorio a Regione e Agenzia della salute. Una lettera strumentale, secondo il primo cittadino. Un atto dovuto per Patrizia Manni: in un momento dove l’argine degli ospedali cominciava a tenere e ancora non era cominciata sul territorio alcuna politica di sorveglianza, era un dovere chiedere che ci fosse e lo è ancora adesso. Il sindaco in Consiglio ringrazia regione e governo e tira dritto anche di fronte alla richiesta di una commissione d’inchiesta comunale.

Ora le due cose che mi preoccupano di più – ci dice Cairo – sono gli 8.000 anziani che sono stati quasi tre mesi in casa e che devono ritrovare le forze, riprendere a vivere e uscire, ma soprattutto l’epidemia economica”. La chiama proprio così. Il bando per l’aiuto a chi non riesce a pagare gli affitti con 100mila euro di fondo è sulla sua scrivania. E ci dice che con gli 80mila avanzati dagli aiuti di governo e regione faranno quello per pagare le bollette. Dal suo osservatorio è raddoppiata la quota di famiglie in difficoltà e sono sempre di più i lavoratori ma anche i piccoli imprenditori che bussano alla porta del Comune per chiedere aiuto.

Nell’emergenza il Comune ha scelto la sussidiarietà, intestando a Croce rossa, protezione civile, oratorio, uniti in un’associazione di scopo, l’iban per la raccolta di donazioni promossa sul territorio: 90mila euro per circa 4300 pacchi a chi ne ha bisogno e a chi non può uscire di casa. Con una evocazione manzoniana il sindaco la definisce “provvidenza lombarda”, la forza di reagire all’avversità della comunità.

Ce ne vorrà tanta per superare la crisi e le ferite.

  • Autore articolo
    Claudio Jampaglia
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