La nave di Penelope

Tsunami di voti

Qualche mese fa il Manzoni aveva fatto partire una staffetta di occupazioni che aveva coinvolto dodici scuole superiori di Milano in un paio di settimane. Chiedevano di poter tornare a scuola in sicurezza, dopo mesi di Dad. Pochi giorni fa, gli studenti del liceo classico di via Orazio hanno occupato il cortile. Questa volta la protesta è contro lo tsunami di interrogazioni e compiti in classe che si è abbattuto su di loro dopo il ritorno in classe.

L’appello del ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, ai professori è di tenere conto dell’anno difficile (pur sostenendo che quello di essere valutati è un diritto degli studenti). Che poi è la stessa richiesta avanzata da diversi presidi al corpo docente.

Ma nonostante questo, non è la prima volta dal rientro che sentiamo gli studenti parlarne. Dai social, dove si sentono messaggi vocali di studentesse in lacrime per lo stress, al sondaggio di skuola.net che, su un campione di 1.500 studenti, decretava che uno su tre temeva il ritorno a scuola per un possibile bombardamento di interrogazioni e compiti in classe, fino alle dichiarazioni degli studenti di varie scuole, intervistati sui quotidiani, che parlano di settimane piene verifiche e interrogazioni, anche diverse al giorno. Alcuni si lamentano dell’occasione persa: si torna a scuola ma invece di approfondire gli argomenti e dialogare tra loro e con i docenti, finalmente in presenza, si preferisce smaltire le valutazioni.

Ora, mi chiedo, è proprio necessario?

Abbiamo visto come i lunghi mesi di isolamento abbiano messo a dura prova i ragazzi e causato un aumento dei disturbi psichiatrici tra gli adolescenti. Alcuni poi si sono arresi e hanno smesso di seguire le lezioni.

Non si può utilizzare quest’ultimo mese per ricucire i rapporti con loro e insegnare loro l’importanza della scuola? Le occupazioni e le proteste, portate avanti per mesi, sono un segno d’amore e consapevolezza verso tutto quello che hanno perso in questi mesi: la scuola stessa. Si vuole tradire la loro battaglia limitandosi a usare questo periodo per riempire il registro?

Non fraintendetemi. Capisco l’esigenza dei docenti di avere delle valutazioni per poter discutere con i colleghi a fine anno del lavoro svolto dai ragazzi, del loro impegno e di eventuali punti di forza o debolezza su cui lavorare. Ma forse, viste le condizioni straordinarie, servirebbe una riflessione sui metodi. Del resto, anche in tempi ordinari, c’è qualcosa che stride nel meccanismo.

Ho parlato di tsunami. Una grande onda che porta con sé, come detriti, numeri da scrivere su un registro e da portare in consiglio di classe entro la fine dell’anno.

È con questa immagine che ricordo alcuni mesi del mio percorso scolastico. Quelli più intensi, che ogni anno arrivavano inesorabilmente prima della pagella. E probabilmente ve li ricordate anche voi, qualsiasi età abbiate. Anzi, rispetto ai ragazzi di oggi, noi avevamo anche una scuola organizzata sui programmi (ora aboliti) che i docenti dovevano finire. E quindi ci si trovava con centinaia di pagine assegnate tutte insieme perché si era troppo indietro su qualcosa.

E così, quando arrivava il momento in cui si dovevano affrontare sei verifiche e quattro interrogazioni alla settimana, c’erano moli improponibili da preparare da zero e non semplicemente da ripassare. Poi ricordo che in quinta avevamo fatto una marea di simulazioni di terza prova. Una bella fortuna, direte. Ma, in realtà, erano utilizzate per smaltire le valutazioni di cinque materie per volta, senza che noi potessimo dire “Eh prof, ma abbiamo già un altro compito in classe, non si può spostare?”.

Ma davvero pensate che questo serva a imparare qualcosa? Ricordo solo tanti libri aperti sulla scrivania e una lettura superficiale di tutto quanto per arrivare alla sufficienza. Del resto, il tempo per digerire i concetti e rifletterci su, a fine anno, non c’era. Non con tutte quelle caselline del registro da riempire. Bisognava accontentarsi.

È una cosa che mi ha sempre indispettita. Non ho mai trovato alcuna utilità a imparare migliaia di nozioni a memoria e non ne sono mai stata capace. Tempo di finire un compito in classe ed era tutto cancellato dalla mia mente. Ho sempre pensato che per mettere a frutto quello che si studia si deve avere tempo e modo di ragionarci su. Come si può fare se in una settimana si studiano i programmi di otto materie per essere valutati? Si fa tutto in maniera superficiale. E così anche uno studente brillante finisce per appiattire il suo rendimento, portandosi a casa voti inferiori a quelli che vorrebbe, insieme al senso di frustrazione e alla sensazione di aver perso tempo senza aver imparato nulla.

E allora, almeno nell’anno della Dad, in uno dei paesi europei con il più alto tasso di dispersione scolastica, sarebbe bello ragionarci su e trovare una soluzione per dedicare questi giorni a far amare la scuola ai ragazzi e a far sentire loro che non sono soli e non lo sono mai stati. Ovviamente molti docenti lo hanno già fatto o lo stanno facendo, lungi da me generalizzare.

Chiudo con le parole del pedagogista Raffaele Mantegazza sulle pagine de Il Giorno: “I ragazzi hanno bisogno di recuperare il gusto di ritrovare la scuola, hanno dimostrato di volersene riappropriare nei mesi scorsi, e adesso rischiamo di perdere questa occasione”.

  • Claudia Zanella

    Sono nata a Milano nel 1987. Ma è più il tempo che ho passato in viaggio, che all’ombra della Madonnina. Sono laureata in Filosofia e ho sempre una citazione di Nietzsche nel taschino. Mi piacciono tante cose ma, se devo scegliere tra le mie passioni quali sono quelle che più parlano di me, direi: la Spagna, il rock e il giornalismo. Dopo averci vissuto, Madrid è la mia città d’elezione; il rock scandisce il mio ritmo di vita e venero le mie chitarre come oggetti magici; infine, fare la giornalista soddisfa il mio impulso alla Jessica Fletcher di voler sempre vedere chiaro e poi raccontare. Ho lavorato per cinque anni per La Repubblica, come cronista e responsabile del settore “Educazione e scuola” a Milano. Cofondatrice del progetto di storytelling su Milano ai tempi del coronavirus: “Orange is the new Milano”. Sono approdata a Radio Popolare nel 2019, occupandomi di un po’ di tutto, ma mantenendo sempre un occhio vigile sul mondo della scuola.

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    L'abbiamo scoperto con l'EP "Somewhere only we go" e oggi a Volume abbiamo avuto modo di conoscere meglio la storia di questo cantautore nigeriano, che si è poi formato musicalmente in Ghana: "Nel corso degli anni le nostre musiche si sono fuse: l'highlife ghanese, il palm-wine, il folk di Kumasi, il suono contemporaneo della chitarra. Ho potuto unire questi due mondi, mescolandoli con le radio occidentali che ascoltavo da ragazzo". Il risultato è un folk pop pieno di anima e di profondità: "Il mio obiettivo non è solo una carriera internazionale, ma costruire qualcosa in Africa. Voglio creare una struttura che funzioni per artisti come me, gente con una chitarra o un tamburo, artisti contemporanei che non hanno modo di raggiungere il loro pubblico". Ascolta l'intervista di Niccolò Vecchia a Tommy WA.

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    Teatro. La rivoluzione delle "piscinine" milanesi vista da due piccioni in crisi esistenziale Al Teatro della Cooperativa, a Milano ha debuttato in prima nazionale "Lo sciopero delle bambine", in scena Rita Pelusio e Rossana Mola di PEM Habitat Teatrali, compagnia che porta avanti una ricerca artista che declina contenuti civili e ironia. Lo spettacolo, con la regia di Enrico Messina, racconta una storia avvenuta a Milano nel 1902, quando le “piscinine”, che in dialetto meneghino significa “piccoline”, bambine, tra i sei e i tredici anni, che lavoravano senza diritti, sfruttate e sottopagate, ebbero la forza di scioperare e, per cinque giorni, fermare l’industria della moda della città. A raccontare la vicenda delle piscinine in scena sono due piccioni, due creature che abitano le piazze, le cui parole rispecchiano lo sguardo dei contemporanei, spesso stanchi e disillusi davanti alle sfide della storia. Nella trasmissione Cult Ira Rubini ha intervistato l’attrice Rita Pelusio.

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