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Mafia a Foggia, un borghese nemico dello Stato

La Direzione Nazionale Antimafia l’ha definita “il nemico numero uno dello Stato”. Molta stampa l’ha chiamata “quarta mafia”, quando in realtà, a sentire i più sagaci procuratori antimafia pugliesi, si tratterebbe della quinta dopo Cosa Nostra, Camorra, ’Ndrangheta e Sacra Corona Unita. La Puglia, diversamente dalle altre regioni del Sud, arriva tardi ma arriva con due mafie evolute. L’ultima in ordine di apparizione è quel coacervo di sistemi che va sotto il nome di “mafia foggiana”. A comporre il complicato puzzle della mafia di Capitanata sono tre grandi consorterie che da tempo provano a riunirsi in un direttorio senza vertice.

La consorteria del Gargano (la cui faida tra i Li Bergolis di Monte Sant’Angelo e i Romito di Manfredonia ha prodotto la strage di San Marco in Lamis e qualcosa come oltre duecento morti senza un colpevole, nonché lo scioglimento per mafia del Comune di Manfredonia), quella di Cerignola (che ha portato anche qui allo scioglimento per mafia del Comune) e quella della città di Foggia (che ha portato l’attuale governo a inviare la commissione di accesso per verificare se anche questo Comune vada sciolto per ingerenze mafiose). Le fondazioni di queste mafie risalgono alla seconda metà degli anni settanta e sono avvolte da un velo di mistero. Certa è la nascita della mafia del capoluogo del Tavoliere, la “società foggiana”, che deve i suoi natali al battesimo officiato da Raffaele Cutolo in un albergo del posto.

Dopo una prima, perdente impostazione camorristico napoletana, anche le mafie foggiane si adeguano e sposano l’impostazione ndranghetista che già fungeva da modello nel Salento e in qualche luogo del barese. Pochi conoscono, a dire il vero, l’impronta calabrese sulle mafie pugliesi. Il primo mafioso vero di Puglia, il tranese Salvatore Annacondia detto Manomozza, si è formato alla scuola dei calabresi di Milano, città dove il tranese esportava esplosivi per i marsigliesi di seconda generazione. Dopo la sua affiliazione ai calabresi, è stato lui a benedire la costituzione della Sacra Corona Unita di Giuseppe Rogoli, lui a investire sul boss barese Savino Parisi, lui a influenzare il foggiano Giosuè Rizzi barbaramente ucciso nella strage del Bacardi, dal nome del centralissimo locale teatro della mattanza.

Dopo Rizzi, le batterie foggiane si sono moltiplicate e sono entrate spesso in guerra: Sinesi, Francavilla, Lanza, Trisciuoglio, Prencipe, Tolonese, questi i nomi delle famiglie più potenti. Nomi ai quali andrebbero appiccicati quelli dei politici, degli imprenditori, dei professionisti e dei funzionari pubblici e privati che compongono quella che Cafiero De Raho ha chiamato “borghesia mafiosa”. È grazie a questo intreccio ‘ndranghetista tra sistema criminale, sistema politico e sistema imprenditoriale – a cui si aggiunge quello massonico del latifondo contro cui lottava Peppino Di Vittorio – che si è strutturata storicamente la quinta mafia. Senza questo intreccio di interessi la Capitanata non avrebbe, adesso, la mafia più feroce e soffocante della penisola.

  • Leonardo Palmisano

    Bari 1974, autore e presidente della cooperativa di LegaCoop Radici Future Produzioni. Colomba d'oro per la Pace e premio Livatino contro le mafie. Per Fandango Libri ha pubblicato la trilogia dello sfruttamento (Ghetto Italia, Mafia caporale e Ascia nera), e ha iniziato la serie di gialli dedicata al bandito Mazzacani (Tutto torna, Nessuno uccide la morte, Chi troppo vuole). Dirige il festival antimafia LegalItria. Editorialista per il Corriere del Mezzogiorno e altre testate.

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