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Siria, la guerra di Erdogan ai curdi e il silenzio della comunità internazionale

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Erdogan non ha escluso un’operazione di terra nel nord della Siria. Nelle ultime 48 ore l’aviazione di Ankara – la sua versione – ha già bombardato decine di postazioni delle milizie curdo-siriane dall’altra parte della frontiera.

Sono state colpite Kobane, alcuni villaggi a nord di Aleppo e altre località nella provincia di Hasaka. È una parte importante di quella striscia di territorio siriano che a nord confina con la Turchia, quasi mille chilometri. Fonti curde hanno denunciato 14 morti, soprattutto civili.

Ieri mattina sono caduti in territorio turco – nella provincia di Gaziantep – colpi di mortaio. La risposta curda. Avrebbero fatto almeno due vittime e diversi feriti.

Formalmente il governo turco ha deciso questa nuova operazione militare dopo l’attentato di otto giorni fa a Istanbul, che considera opera del PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan. Organizzazione armata che non solo la Turchia, ma anche Unione Europea e Stati Uniti, considerano un gruppo terroristico. La guerra con lo stato turco va avanti dalla metà degli anni ottanta.

Cosa c’entra il nord della Siria? Il nord della Siria, nello specifico il nord-est della Siria, è la zona del paese a maggioranza curda, come il sud-est della Turchia. E in quella zona operano le milizie curdo-siriane, quelle che hanno fatto il lavoro sporco, la battaglia sul campo, nella guerra contro l’ISIS in alleanza con l’Occidente.

La Turchia considera questi gruppi armati la stessa cosa del PKK. E in effetti i legami sono molto forti. Per il semplice motivo che in questo territorio i legami tra le famiglie e le comunità sono profondi, antichi di secoli. Molti curdi nel sud-est della Turchia oppure nel nord-est della Siria, hanno legami di parentela con chi vive dall’altra parte del confine. Da un certo punto di vista si tratta di un’unica terra. Viaggiando lungo il confine lo si nota molto chiaramente.

Da anni Erdogan sta cercando di fare in modo che dal caos della guerra siriana non esca una regione – il nord-est appunto – amministrata in maniera autonoma dai curdi siriani. O almeno che questa regione non sia a ridosso del confine turco. Per paura che questo possa alimentare ulteriormente le rivendicazioni e le aspirazioni dei curdi turchi. Anche da qui – nei primi anni della guerra siriana Ankara doveva colpire, in parte, anche l’ISIS – comunque anche da qui le tre operazioni militari degli ultimi anni nel nord della Siria: 2016, 2018, 2019. Oltre a una serie continua di incursioni aeree. Un conflitto a bassa intensità.

E non dimentichiamo che la Turchia è presente nel nord della Siria, proprio perché territorio sotto la sua frontiera, anche dove non ci sono i curdi. Per esempio nella provincia di Idlib.
Perché adesso? L’obiettivo è sempre lo stesso, colpire e indebolire i curdi-siriani e il PKK. Ma la tempistica è dettata dal contesto interno e da quello internazionale.

Erdogan, che l’anno prossimo si ricandiderà per l’ennesima volta alle elezioni, sta perdendo popolarità, anche perché il paese è alle prese con un’importante crisi economica. L’inflazione – solo il dato ufficiale – è arrivata quasi al 90%.
Sul piano internazionale, invece, il presidente sfrutta il suo ruolo di punto di equilibrio su alcune questioni critiche. Basta citare l’accordo sul grano ucraino e l’apertura dei porti sul Mar Nero, così come l’imminente ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO, al quale devono dare il via libera tutti i membri dell’Alleanza Atlantica. Inizialmente Erdogan aveva minacciato il veto per l’asilo concesso a diversi curdi dai due paesi nordici.

Insomma, Ankara sa che in questo momento la comunità internazionale, occupata in altro, a partire dall’Ucraina, non protesterà più di tanto. Vale soprattutto per l’Occidente, che come abbiamo detto ha usato le milizie curde per fare la guerra all’ISIS dopo gli attentati dello Stato Islamico in Europa e ora si girerà dall’altra parte.

  • Autore articolo
    Emanuele Valenti
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