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Ad Haiti continuano le proteste contro l’ingerenza straniera

haiti

Alcuni uomini hanno costruito una bara di legno e ci hanno incollato sopra la faccia del primo ministro di Haiti, Ariel Henry. Poi l’hanno presa in spalla e sono scesi in strada a manifestare insieme ad altre migliaia di persone. Per loro, il primo ministro, che è salito al potere dopo l’assassinio dell’ex presidente Jovenel Moise, dovrebbe dimettersi immediatamente.

Le proteste violente si sono moltiplicate tra ieri e oggi. I supermercati vengono assaltati, si appicca il fuoco in mezzo alla strada. Per i manifestanti il nemico è il governo, che nelle ultime settimane ha chiesto l’intervento di una forza armata internazionale: è l’unico modo – dicono i rappresentanti governativi – per ristabilire l’ordine nel Paese. Haiti oggi è in mano alle gang armate, le persone faticano a trovare viveri e acqua. Le scuole sono chiuse per il terzo anno di seguito e il colera è tornato ad essere una minaccia reale, con più di venti decessi già avvenuti.

La prima risposta alla richiesta di aiuto del governo è arrivata nel weekend: alcuni mezzi americani e canadesi sono arrivati in supporto delle forze statali. Intanto si lavora a livello istituzionale: ieri si è tenuta una riunione del consiglio di sicurezza dell’Onu. Stati Uniti e Messico hanno annunciato di star lavorando a due proposte di risoluzione. Una per colpire i gruppi criminali, anche con sanzioni economiche; l’altra per autorizzare l’invio di un aiuto internazionale. Russia e Cina hanno già presentato delle rimostranze alle proposte statunitensi.

Tutti gli ultimi eventi si sono concentrati sin una data molto importante per gli haitiani. Il 17 ottobre di ogni anno si commemora Jean-Jacques Dessalines, l’uomo che nel 1804 proclamò l’indipendenza di Haiti, dopo aver guidato la rivolta contro i colonizzatori. Lui divenne amministratore della prima repubblica nera della storia: Haiti ha questo primato, e ha alle spalle una storia di lotta per l’indipendenza che per molti haitiani torna attuale anche oggi.

Dopotutto il Paese ha già vissuto la presenza di truppe straniere sul suo territorio. L’Onu ha stabilito una missione di peacekeeping dal 2004 al 2017. Un’operazione controversa, con i soldati accusati di stupri e di sfruttamento della prostituzione minorile. Inchieste internazionali hanno anche mostrato il coinvolgimento di attori esterni, come mercenari colombiani provenienti anche dagli Usa, nell’assassinio dell’ex presidente del Paese Jovenel Moise, ucciso a luglio del 2021.

Un’alternativa all’aiuto internazionale, però, si fatica ad immaginare. Se le forze esterne arriveranno nel Paese, certamente dovranno comportarsi in modo diverso rispetto al passato. Per alcuni osservatori internazionali, comunque, questo non sarà sufficiente: l’aiuto internazionale – dicono – dovrebbe puntare a rimuovere le cause di povertà, a creare posti di lavoro. Allo stesso tempo, gli haitiani dovranno ricominciare a guardarsi come figli della stessa storia e ad abbassare le armi che oggi alzano gli uni contro gli altri.

di Chiara Vitali
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    Troppo caldo, lavoratori in sciopero. 36 gradi nel capannone dove si producono componenti per i condizionatori. Il paradosso è che, in quella ditta, si producono scambiatori di calore, componente fondamentale per gli impianti di climatizzazione. Che però, nei capannoni della Emmegi di Cassano d’Adda, non ci sono. La conseguenza, temperature roventi, che superano i 36 gradi, e condizioni di lavoro inaccettabili. Per questo lavoratori e lavoratrici stanno scioperando, per ottenere almeno un po’ di refrigerio, che però al momento viene negato dalla proprietà, che anzi ha incaricato un consulente per farsi dire che “la temperatura è acettabile”. Maurizio Iafreni è Rsu Fiom alla Emmegi e responsabile della sicurezza: (foto Fiom Cgil)

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