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Cosa sappiamo della variante inglese del virus? Parla il virologo Fabrizio Pregliasco

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Fabrizio Pregliasco, virologo e ricercatore del dipartimento di Scienze biomediche dell’Università degli Studi di Milano e membro del CTS lombardo, commenta a Radio Popolare la nuova variante del virus SARS-Cov-2 individuata in Regno Unito e cosa essa rappresenti per gli studi sui nuovi vaccini.

L’intervista di Lorenza Ghidini e Roberto Maggioni a Prisma.

Lei è preoccupato di questa variante inglese del virus?

Non ci voleva. Era attesa perché i virus RNA, come quello dell’influenza, tendono a modificarsi proprio perché sono instabili nella loro capacità replicativa, e sfruttano questa inefficienza rispetto ad altri virus come quello del morbillo (che si replica sempre su stesso). Tantissime le mutazioni, una o due al mese. Le abbiamo viste in questo breve ma pesante periodo. Questa variante ha un vantaggio: uno 0.5 in più di R0, quindi una capacità diffusiva maggiore. Mutazioni singole sono ancora più frequenti in un singolo nucleotide del genoma del virus. Queste sono combinazioni di plurime variazioni, in queste caso 23 e in particolare alcune in quella proteina spike, quella che si vede nei modelli 3D ed è l’uncino del virus verso i recettori del nostro organismo, gli ACE2. Questo elemento preoccupa. Sembra che l’unica cosa negativa ad oggi, con necessità di verifica, sia questa, della maggiore contagiosità e quindi dell’infastidimento rispetto a quanto si vede già in Inghilterra, una curva che già sta salendo in modo esponenziale. Gli altri aspetti negativi sembrano essere assenti. La patologia sembra essere sostanzialmente la stessa e anche la vaccinazione, perché si è già visto che anticorpi prodotti dai vaccinati sono per diverse zone di questo spike, e quindi anche se ne perdono alcuni sono efficaci. Su questo però dovrà essere fatta una serie di approfondimenti e verifiche.

Quello che tutti si chiedono è se questa variante del virus metta a rischio l’efficacia dei vaccini. Il fondatore di Biontech dice che servono due settimane per raccogliere ulteriori dati, nonostante dal punto di vista scientifico sia altamente probabile che il loro vaccino possa difendere anche contro questa variante. Lei cosa ne pensa?

Stanno facendo dei controlli usando dei sieri di soggetti vaccinati, e stanno provando su cultura cellulare questo virus vivo e variato per verificare se i sieri neutralizzano questi virus coltivati su cellule. Ci vuole un po’ di tempo per mettere appunto le prove e farne una relazione finale, ma io confido che ci sia un’efficacia e una reattività del vaccino, e possa essere utile e necessario. Questa metodologia dei nuovi vaccini Pfizer e Moderna con l’RNA può essere un elemento di facile velocità nell’eventuale aggiornamento della composizione dei vaccini.

Proprio perché ci sono, per concezione e meccanismo di funzionamento, diversi vaccini, lei prevede che si potrà scegliere quale usare?

Non c’è ancora certezza ma ritengo che a chi tocca tocca, perché saranno produzioni che via via si sommeranno e volendo velocizzare la campagna, come succede anche per il vaccino antinfluenzale. Il medico di base ha quel vaccino che gli viene fornito e viene somministrato ciò che viene dato come indicazione di ordine generale rispetto alla categoria e all’utilizzabilità del vaccino. Per esempio il Pfizer si può usare dai 16 anni in poi. Penso che la campagna sarà imponente, complessa e potrà arrivare a una disponibilità per tutti entro settembre del prossimo anno. Solo così si potrà a pensare di ridurre l’utilizzo delle mascherine, di questo nuovo galateo che comunque dovrà essere mantenuto per tutto questo tempo, finché non si raggiungerà quel 60/70% che i modelli matematici ci dicono essere necessari per arrivare all’immunità di gregge.

Tornando alla questione della variante inglese del virus, come si individua? Abbiamo letto che la Gran Bretagna analizza il 4/5% dei casi nazionali, e l’Italia pare non lo faccia. È possibile che sia già tra noi, o che esista una variante italiana?

Anche da noi viene fatta questa indagine di secondo livello, che utilizza il virus coltivato in vitro (quindi moltiplicato in laboratorio) e sequenziato completamente attraverso i sequenziatori, macchine simile a quelli per la diagnosi molecolare (PCR) ma più complessi perché devono srotolare tutto l’RNA, un po’ come scrivere tutto lo spartito della musica, mentre invece i test in laboratorio molecolare individuano piccoli pezzi, in alcuni punti significativi del genoma, un po’ come Shazam con l’individuazione della musica. Sarà a questo punto molto necessario implementare centri di riferimento su tutto il territorio nazionale e aumentare la percentuale di questo sequenziamento, in modo di avere un’immagine più precisa di queste varianti virali che circolano.

Tornando alla Lombardia, 1.500 persone arrivate dal Regno Unito si sono autosegnalate all’ATS. Bisognerà analizzare i loro tamponi in profondità, secondo il metodo che spiegava, per andare a vedere se c’è questa variante?

I testati dovranno essere osservati e dovrà essere considerato per loro questo periodo di quarantena di 14 giorni, in modo tale che si verifichi che non si siano infettati. Rimarrà però l’esigenza di una rivalutazione della verifica di positività con dei test molecolari che possano garantire per certo la positività. Sarà necessario individuare un tampone nell’immediato e poi un follow up per identificare un’eventuale positivizzazione. Il sequenziamento può essere necessario in caso di positività. L’unica accortezza sarà quella di utilizzare, tra i vari test molecolari, quelli che garantiscono un’alta sensibilità, proprio perché non utilizzano i pezzettini che servono di riferimento al virus, le parti s dello spike che potrebbero dare qualche falso negativo. È questo l’unico problema che si sta ponendo rispetto alla standardizzazione e alla verifica di tutti i vari test di laboratorio molecolari che utilizzano piccole variazioni rispetto alle parti del genoma che vengono individuate.

Avremo delle risposte nei prossimi giorni?

Ci vorranno pochissimi giorni. Il tempo di laboratorio in questo caso viene velocizzato e nell’arco di due/tre giorni questo potrebbe essere attuato. Credo che nell’arco di una settimana si possa avere un’idea complessiva.

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    Nuova strategia e organismi di gestione per i fondi per le aree interne fino al 2027. Lo ha deciso il governo, con poca convinzione nella possibilità di invertire lo spopolamento e il declino economico di ampie zone d’Italia, più al sud che nel centro nord. In tutto ci vivono oltre 13 milioni di persone. In Lombardia le aree interne sono Valcamonica e Valcamonica in provincia di Brescia, Val d’Intelvi in quella di Como, e l’Oltrepo pavese. Per supportare questi territori ci saranno strutture dalla presidenza del consiglio alle regioni, passando per gli enti territoriali comprensoriali che dovranno attivarsi per coordinare il lavoro in rete. Come nella precedente strategia rimangono centrali i servizi per chi vive in questi territori, dalla sanità alla scuola, passando per le connessioni digitali e i trasporti. L’invecchiamento della popolazione, secondo il documento del governo, appare maggiore in questi territori, i migranti possono aiutare a diminuire questa prospettiva, così come ci sono segnali di ripresa del commercio in alcuni territori. Fabio Fimiani ha sentito Patrizio Dolcini di Legambiente Oltrepo pavese, una delle aree interne della Lombardia.

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